Aldo Bianchini
SALERNO – Impossibile dimenticare la scena vissuta in diretta nell’interno dell’aula bunker del Tribunale di Nocera Inferiore: la camorra, la politica e la finanza trascinate, tutte assieme e in schiavettoni, nelle celle blindate da pesanti cancellate che si affacciano sull’aula stracolma di avvocati difensori e di giornalisti (appositamente ammessi e dotati di idonei strumenti di lavoro); era il 29 febbraio del 2012 e si celebrava la prima udienza (durata pochi minuti) del famigerato processo “Linea d’Ombra – Sistema Pagani” che pochi mesi prima, esattamente il 15 luglio 2011, aveva portato in cella il gotha politico del centro-destra dell’agro nocerino-sarnese per quella che appariva come la “mamma di tutte le inchieste giudiziarie” mai avviate su tutto il territorio provinciale di Salerno, superiore e di gran lunga anche alle più blasonate inchieste di tangentopoli.
Dietro le pesanti sbarre il capo del presunto e scellerato accordo politico-mafioso-elettorale-economico l’on. Alberico Gambino (già sindaco di Pagani e consigliere regionale), la mente sottile e perfida dell’associazione per delinquere il Giuseppe Santilli (noto professionista, consulente e commercialista di Pagani e già consigliere comunale), i presunti camorristi Michele e Antonio Petrosino D’Auria (legati, tra gli altri, anche al “clan Ridosso”) e vari altri personaggi minori ma non per questo insignificanti e non vittime della stessa violenza investigativa.
Nel bel mezzo dell’aula, con la schiena rivolta alle celle quasi come un atto di sprezzante ostilità verso i carcerati, c’era lui, il pubblico ministero del momento, l’uomo che stava rivoltando la politica salernitana come un calzino, in jeans e polo con scarpette di ginnastica alla moda, venuto da Potenza (dove poi è ritornato) nella cui Procura si era distinto per via della clamorosa inchiesta su politica-affari-camorra che, grazie anche alla manina di Henry John Woodcock, aveva portato in carcere ben 92 personaggi tra i quali i vertici della Regione Basilicata e del Comune di Potenza con noti e facoltosi imprenditori; con il risultato di 90 assolti con formula piena e due condannati a pene lievissime perché già portatori di piccole condanne. Il suo nome ? “Vincenzo Montemurro”, il pubblico accusatore dotato di un formidabile intuito investigativo ma, forse, troppo incartato contro il centro destra.
Non potrò mai dimenticare gli sguardi smarriti di Alberico Gambino e di Giuseppe Santilli, quasi da apparire come pesciolini fuor d’acqua e incapaci di reagire all’evidente attacco brutale e frontale che da mesi li aveva investiti e stritolati nella possente macchina del fango, con la complicità inquietante di molte testate giornalistiche di carta stampata e televisive. Gambino e Santilli difesi rispettivamente ed ottimamente dagli avv. Giovanni Annunziata (dal 1° in Cassazione) e Giovanni Falci (soltanto in Cassazione); per entrambi gli imputati comune destino: “assoluzione con formula piena” e per Santilli anche il risarcimento sancito dalla Cassazione, dopo circa dieci anni di battaglie giudiziarie.
L’ennesima assoluzione per Gambino è arrivata qualche settimana fa e giustamente con il suo avvocato, Giovanni Annunziata, si è presentato in conferenza stampa per “gridare la sua innocenza”; un grido che capisco ma non faccio mio, perché non bisognerebbe fermarsi alla semplice accoglienza della sentenza assolutoria, sarebbe d’uopo spingere oltre, molto oltre, per capire la genesi di questo grave problema che affligge la giustizia italiana che nella maggior parte dei casi aggredisce a destra e frena a sinistra.
Dico questo perché quasi nessuno studia i fenomeni giudiziari legati all’azione di uomini che, pur rispettando le istituzioni, esprimono con molta forza la loro presunta difesa a spada tratta della legalità che stranamente è molto più presente a sinistra piuttosto che a destra, dove in verità navigano personaggi a volte strani, pieni di boria, ciucci e presuntuosi; fino al punto da suscitare le ire degli investigatori. Ho detto “degli investigatori” non dei “p.m.” che pure spesso prendono assi per figure.
Nessuno mette insieme le varie inchieste giudiziarie che attraversano specifici territori per capire come le stesse sono state condotte, da chi sono state condotte e, soprattutto, quale fine, almeno in partenza, si prefiggevano di raggiungere; ben al di là di quella fantomatica e fantasiosa legalità.
Prima di rimandarvi alla prossima puntata è utile ricordare un nome su tutti, quello di Romolo Ridosso, che da buon capo-clan dell’agro compare in tutte le inchieste di cui scriverò fra qualche giorno quasi come fosse la reincarnazione di quel belzebù ben descritto da Paolo Sorrentino nel film “Il Divo” dedicato a Giulio Andreotti; pensate in queste ultime ore è comparso anche nella triste – inquietante – spigolosa e fuorviante vicenda dell’omicidio di Angelo Vassallo; come dire che un camorrista in più non fa mai male e serve per rimescolare il mazzo di carte più volte mischiato per riavviare sempre la stessa macchina del fango, anche per il povero Angelo che non è stato ucciso né per vendette politiche (come si tenta di accreditare) e né per il rischio che denunciasse un piccolo traffico di droga.