Nicola Femminella
(docente – storico – scrittore)
Puntualmente ci giungono le rilevazioni e gli studi che la Svimez effettua nel corso dell’anno sullo stato di salute di cui gode l’economia nel sud, mettendola in relazione con quelle del nord e del centro Italia. Nelle anticipazioni del Rapporto 2022, emanate il 3 agosto scorso, emerge il perdurare del divario tra le tre aree del nostro Paese che ci danno sempre lo stesso responso: il sud in affanno, perché si appalesano ritardi e indici negativi della crescita nel confronto delle altre due aree, che si difendono meglio dal Covid, dalla guerra in Ucraina e dall’inflazione che galoppa al 6-7%. Un triste fenomeno iniziato dopo l’Unità d’Italia. Una litania di percentuali sfavorevoli per le regioni meridionali e deludenti per coloro che avevano nutrito un barlume di speranza all’indomani delle risorse finanziarie del Recovery Fund destinate al sud, mai elargite così generosamente dalla Comunità Europea. La quale tanto ha concesso, per privilegiare e soccorrere le aree povere del nostro Paese e proiettarle verso un’alba radiosa, promuovendo un recupero atteso da decenni, specie dalle nuove generazioni, relegate da tempo nel girone della trepida attesa.
A fronte dell’ormai secolare questione adornata dall’aggettivo meridionale, continuo a condividere gli insegnamenti di Gaetano Salvemini e Giustino Fortunato, meridionalisti illustri, i quali sostenevano, convinti e a voce alta, che i popoli delle terre meridionali devono, come primo atto, rendersi protagonisti del proprio riscatto socio-economico, impegnando con determinazione e assunzione di responsabilità concreta la propria volontà e le risorse di cui godono i territori, chiedendo al governo centrale null’altro se non i propri diritti come le popolazioni del resto dell’Italia. Nel passato, invece, spesso è mancato l’impegno necessario da parte dei nostri governanti e, in verità, anche della gente comune, perché anche gli investimenti predisposti dallo Stato si sono smarriti nei mille rivoli dell’inefficienza, dello spreco, del crimine e nel disinteresse dei cittadini, senza ascoltare la limpida voce di Salvemini che aveva affermato fin dal 1908 al X Congresso del Partito Socialista: “il Mezzogiorno… la «questione meridionale» non fondamento recriminatorio di domande di risarcimento per ingiustizie subite, ma… progetto politico improntato a un effettivo riformismo.” E citava gli emigranti del sud che tornavano nelle proprie regioni dove utilizzavano i risparmi messi da parte con mille sacrifici per comprare le terre dai latifondisti, ansiosi di diventare imprenditori e regalare una prospettiva di vita migliore ai propri figli, dopo aver intimato, nelle lettere inviate alle mogli, di far loro frequentare la scuola per migliorare la dimensione culturale dei ragazzi.
Ma veniamo ai dati della SVIMEZ. Nel 2022 nel sud avremo una crescita del Pil del 2,8, a fronte del 3, 6 del centro-nord (era calato dell’8% nel 2020 – 9% il calo a livello nazionale – e cresciuto del 5,9% nel 2021, anno di crescita esplosiva, a fronte di una avanzata nazionale del +6,6%).
Ci sarà precarietà nell’occupazione e prevarranno i contratti instabili e a tempo determinato. Stessa discrasia si rivelerà per i prossimi due anni, se non interverranno eventi peggiori nello scacchiere mondiale a rendere inquietante ancor più la nostra esistenza nel sud, visti i venti minacciosi che spirano sulle tensioni tra Cina, America, Russia, Europa. Gli unici incrementi nell’economia del meridione si verificano nel settore edilizio dovuto al super bonus per riattare le costruzioni e nella politica in espansione di assistenza alle classi più deboli. Si spera che il prossimo governo tali provvedimenti li mantenga in vita unitamente al reddito di cittadinanza, da più parti, si dice, con le dovute modifiche. Dovessero venir meno tali misure di sostegno le cifre volgerebbero ad un ulteriore, vistoso ribasso delle previsioni nel Rapporto SVIMEZ 2023, già preannunciato negativo con il Pil del Mezzogiorno all’1%, contro l’1,9% del Nord-Ovest e l’1,4% del Nord-Est e all’1,7% in recupero del Centro. Il 2024 proietta lo stesso andamento sulla raccolta dati degli analisti.
Per quanto attiene i progetti finanziati con le risorse del PNNR si denuncia una insufficienza nella progettualità dei nostri amministratori e un appesantimento dovuto ai carichi burocratici e a mancanza di personale tecnico qualificato negli organici delle amministrazioni comunali, che potrebbero apportare tempi stretti per definire e ultimare il tutto nel 2026 con la rendicontazione finale dei lavori eseguiti. Per rendere chiaro il discorso, nel documento della Svimez si afferma che le nostre amministrazioni locali impiegano 450 giorni in più per portare a termine gli impegni assunti per inaugurare le infrastrutture finanziate con il PNNR, rispetto a quelle che operano nel centro nord! Insufficienza non più tollerabile!
A rendere più oscuro l’immediato futuro è l’inflazione già citata. I costi dei trasporti nel Sud segnano indici superiori a quelli del resto del paese (quasi il doppio) per cui tutto il sistema da noi risulta fragile rispetto all’onda del rincaro delle merci. L’inflazione, infatti, dovrebbe nuocere maggiormente il sud con l’8,4, rispetto al 7,8 nel centro-nord, con una netta diminuzione del consumo. Dato, anche questo, oltremodo negativo perché penalizzerebbe le famiglie più povere che nel meridione costituiscono un terzo delle famiglie, posizionandosi nel primo quintile di spesa familiare mensile equivalente, contro il 14,4% del Centro e quasi il 13% nel Nord. E non sappiamo cosa accadrà quando saremo chiamati dall’U.E. a restituire la parte delle somme concesseci dal Recovery Fund, come stabilito a Bruxelles.
In che modo fronteggiare il futuro denso di nebbie? Amici dotati di buona competenza nell’analizzare i fenomeni e i dati dell’economia indicano alcune rotte da tenere in questo contesto storico, dopo aver dichiarato che i tempi attuali, con le incertezze politiche perduranti nel nostro Paese e i sommovimenti vaganti in tutte le latitudini del pianeta, non consentono di prevedere esattamente i fili rossi di cui sono intessute la politica e l’economia globalizzata. Pur tuttavia, assumono importanza notevole – sostengono – la progettualità attenta da parte dei nostri amministratori locali e regionali, calibrata sui bisogni delle comunità, puntuale e pronta ad accogliere ogni occasione determinata da risorse finanziarie disponibili. Raccomandano un impiego del danaro pubblico oculato, controllato, senza sprechi inutili o vanificato da ritardi e manovre artificiose, peggio ancora, se inquinato da infiltrazioni di gruppi e botteghe pronti a deviarlo verso il tornaconto personale. Utilizzare al meglio talune disposizioni introdotte dall’ordinamento dello stato, come l’istituzione delle Aree Interne, il Piano Sud 2030, l’Agenda 2030, il Piano Regione Indirizzi ecc., promuovendo senza indugio l’aggregazione tra i comuni dello stesso comprensorio e con problemi ed esigenze simili. Conoscere e studiare i territori in profondità per individuare risorse e vocazioni, rievocare e attivare tradizioni e attitudini consolidate nel tempo, ma guardando alle novità tecnologiche del presente e del futuro. Affidarsi ad esperti di programmazione territoriale, per evitare analisi superficiali e obiettivi poco ancorati ai dati reali e alle conoscenze inappuntabili. Coinvolgere le popolazioni, specie i giovani, nella stesura di piani connessi allo sviluppo delle comunità, realizzando così la formazione degli strati sociali e dando forza all’azione da porre in campo per vitalizzare le richieste inoltrate all’ente erogatore delle risorse finanziarie. Stimolare gli enti comprensoriali e il Parco Cilento Vallo di Diano Alburni ad incentivare e riempire di contenuti arditi il proprio ruolo istituzionale. Accrescere il potenziale culturale delle popolazioni mediante l’azione educativa e formativa della scuola, perché crescano e si rinforzino le competenze delle giovani generazioni e i valori di riferimento. Queste ed altre considerazioni devono imponderabilmente animare le comunità delle nostre zone interne e dell’intero Mezzogiorno, per introdurre finalmente quel “riformismo” diffuso di cui parlava Salvemini nel primo decennio del secolo scorso.