scritto da Luigi Gravagnuolo il 15 Giugno 2022
per Gente e Territorio – Cava
Si possono motivare i propri militi, stremati dall’infuriare della battaglia e decimati in centinaia al giorno, dicendo loro un giorno sì e l’altro pure che le stanno buscando, che la sproporzione delle forze in campo è incolmabile, che non ci sono più munizioni e che le armi dell’Occidente non stanno arrivando e che, quando arrivano, lo fanno in ritardo? E ancora che Severodonetsk ormai è spacciata, che i Russi sono alla vigilia della conquista totale del Donbass e del Luhansk e che il costo umano che stanno pagando gli Ucraini è terrificante?
Saranno pure delle verità, ma non sono certo messaggi rincuoranti per chi sta combattendo in prima linea. Tuttavia, di tanto in tanto, Volodymyr Zelensky, al quale si devono queste affermazioni, annuncia pure che alla fine non solo il Donbass e il Luhansk, ma anche Mariupol e Cherson saranno riconquistati.
Sono messaggi palesemente dissonanti, disorientanti, che vanno decrittati.
La chiave per interpretarli è rinvenibile nell’intervista rilasciata lo scorso otto giugno dalla ex premier Ucraina, Yulia Tymošenko, all’inviato del Corriere della Sera Francesco Battistini.
Lei, fino al 24 febbraio scorso, era stata all’opposizione di Zelensky nel Parlamento e nel Paese, ma quella mattina, alla prima esplosione … “riunisco il mio team e decidiamo tutti di rimanere e di recuperare le armi. Vado da Zelensky. Ragioniamo su quel che possono e non possono fare i russi. Anche lui decide di restare… Prima dell’invasione, non condividevo nulla delle sue decisioni. Ero molto critica sulle sue scelte politiche. Ma il primo giorno di guerra, ci siamo visti e ci siamo stretti la mano. Ci siamo detti: l’unità nazionale non si discute. E la vittoria dipende anche dalla nostra unità”.
Quando poi Battistini le ha chiesto cosa pensasse dei pur timidi accenni di Zelensky ad un possibile accordo finalizzato quanto meno ad una tregua, che contempli la cessione della Crimea alla Russia, lei ha ribattuto perentoria: “…qualunque negoziato su temi così grandi, non è una decisione che riguardi solo il presidente Zelensky. Non importa che lui sia o no d’accordo. Dev’essere una decisione presa dagli ucraini, tutt’insieme. Loro sanno che l’unica garanzia di sicurezza viene da armi strapotenti. E da un ombrello di difesa come la Nato… Zelensky è in una partita diplomatica complicata. Ma non è lui – ripeto – a decidere se firmare o no un qualsiasi accordo di pace. È il popolo ucraino, che decide. Siamo un Paese democratico e libero, non può essere un uomo solo a dire che si rinuncia a un pezzo di territorio. Zelensky non può andare contro la volontà del popolo. E non penso proprio che ci sia un ucraino disposto a perdere per sempre la Crimea”.
Dunque è chiaro. Quando Zelensky, supportato da Biden e dall’intelligence britannica, avverte che difendere il Donbass e Luhansk è ormai impresa disperata, si rivolge ai settori più oltranzisti del suo popolo, indisponibili a qualsiasi accordo di tregua, come a volerli persuadere che è meglio un armistizio mutilante oggi che una resa umiliante domani. Come pure è funzionale a questo messaggio l’alimentazione della speranza che un domani, magari, tutti i territori ceduti ai Russi saranno riconquistati. Un modo come un altro per indorare la pillola, insomma. Non gli riuscirà facile.
Se alla fine, dopo aver perso decine di migliaia di vite ed aver visto distrutte le case, le scuole, gli ospedali, le fabbriche e le infrastrutture del Paese, Zelensky dovesse accettare la cessione alla Russia del Donbass e di Luhansk, oltre che della Crimea, sia pure in cambio di una formale protezione della NATO su quello che resterebbe dell’Ucraina, il suo popolo non potrà non chiedersi perché quei territori non siano stati ceduti prima del 24 febbraio, scongiurando così tanti lutti.
Sarebbe la sua fine politica, e speriamo solo politica. La Tymošenko è lì che osserva, diffida ed avverte, e si sa, l’uomo avvertito è mezzo salvato.