“Afghanistan mon amour” – riceviamo e pubblichiamo una riflessione del tenente colonnello Mauro Scorzato (già collaboratore del quotidiano “La Repubblica”

 

 

“AFGHANISTAN  MON  AMOUR

di Mauro Scorzato

 

Mi chiamo Mauro Scorzato, sono un colonnello in quiescenza dell’ Esercito Italiano, avendo abbandonato il servizio attivo nel 2015. Ho prestato servizio in Afghanistan nel 2005 nel periodo in cui il Comando di ISAF (International Security Assistance Force) era italiano e come tale guidai a Kabul l’”Advance Party” ( il distaccamento che parte per primo e cura la ricezione delle altre forze) del NATO READYLY  DEPLOYABLE CORPS –ITALY, il Corpo d’armata di reazione rapida Nato DI STANZA A Solbiate Olona (VA).

 

Per adempiere a tale compito mi fu necessario un anno di studio della struttura dell’Afghanistan, da quella tribale a quella politica, partecipando a numerosi seminari sia in sede che a Cambridge, a Bruxelles ed a Stavanger in Norvegia.

 

Tornai in Afghanistan nel 2007 con il 151° Rgt . della B. “SASSARI” come capo sala operativa del  Provincial Reconstruction Team (PRT) in Herat, l’unità incaricata della ricostruzione delle strutture sia sociali (scuole, sanità) che politiche (sedi del governo inclusa la polizia e sedi periferiche) del territorio.  Nel 2009, ancora una volta, fui incaricato di fare il Chief Liaison Officer  presso il Comando Operativo di ISAF a Kabul, ovverossia di rappresentare il Comandante della Brigata ( il Comandante di Regional Command West, il comando regionale a guida italiana) presso il comitato per le operazioni nel Paese. Nel 2012 un signore con tasso alcolico ben superiore al doppio del previsto 0,50 mi travolse ad un semaforo e impedì la mia quarta partenza per quei luoghi. In pratica, tenuto conto del ritmo delle missioni (6 mesi missione – 6mesi riposo- 6 mesi ri-addestramento e quindi nuova missione) ho dedicato a quel paese circa 6 anni della mia vita.

 

Ho impiegato molto a scrivere questo articolo travolto dalle idiozie che si trovano nella stampa e che, non solo non riescono a dare una idea della realtà, ma sviano decisamente l’attenzione del pubblico dai problemi reali. Quando al PRT di Herat si presentava Pino Scaccia (TG2 allora), scendeva dal blindato,  andava in mensa dove girava un filmato  dopodiché chiedeva di avere una connessione ad internet, si leggeva tutte le agenzie iraniane e faceva infuocati rapporti dall’Afghanistan senza mai essere uscito dalla mensa.

 

Il tutto faceva sorridere: oggi vedere un presunto diplomatico italiano che salva il bambino all’aeroporto di Kabul mentre l’intera ambasciata italiana, tenendo all’oscuro l’opinione pubblica, si è schierata alla Farnesina il giorno 17 sa molto non di farsa ma di truffa. (1)

 

Ma ancora più sorprendente è l’evacuazione del personale che avrebbe servito “lealmente”  le nostre truppe. Quando ho letto il requisito ho pensato che un  volo di C-130 sarebbe stato più che sufficiente: per la maggior parte, sapevamo benissimo che quelli che lavoravano con noi, appena chiuso bottega nelle nostre basi andavano a vendere al miglior offerente le informazioni raccolte nelle otto ore precedenti. Anche gli interpreti, che pur venivano con noi condividendo i rischi delle uscite nei nostri veicoli, fornivano a diversi attori, sia favorevoli  che contrari, le informazioni principali sul nostro operato sia sul campo che sulle nostre persone. Sempre ad Herat impiegarono un po’ a capire che comprendevo il Dari (uno dei due idiomi  afghani,  basato sul “farsi”, il persiano di cui avevo una infarinatura dalla mia prima missione in Iran). Dopo di che, alcuni interpreti smisero di uscire con me dimostrando di non gradire la mia presenza.

 

Addirittura si mostrarono più affidabili gli individui di etnia pashtun, che pur essendo tendenzialmente più vicini all’ideologia talebana, erano in grado di proteggersi meglio e quindi vendevano solo a quelli che loro gradivano, non a tutti quelli che li minacciavano.

 

Figuratevi quindi la mia sorpresa quando ho saputo che ci stavamo importando quasi duemila persone. Poi mi sono ricordato che anche in Afghanistan ci sono persone che sanno monetizzare alla grande tutti questi eventi, e non sono necessariamente afghani. Sicuramente sono state già formate cooperative con mezza dozzina di mediatori culturali ad 800€ al mese supportati da una decina di dirigenti con imponibile a sei cifre pronti ad accogliere e sistemare questi “profughi”. E magari scopriremo pure che non hanno mai avuto a che fare con noi, con truppe o agenzie italiane, se non per collaborare con gli insorti a localizzarle.

 

Ma allora perché, se queste persone andavano tanto d’accordo con i Talebani, perché mai chiedere l’espatrio? Ma cari signori, proprio perché abituati a fiutare l’aria sanno che un domani anche per i talebani potrà arrivare un tramonto e magari bisognerà accumulare crediti con i futuri vincitori, cosa forse difficile; e d’altra parte perché scegliere un lavoro incerto quando si ha a disposizione una rendita sicura? Forse uno tra gli evacuati sarà  l’autista dell’ambasciata Italiana a Kabul, a cui chiesi nel 2005 dove avesse imparato l’italiano così bene e mi rispose che si era laureato in medicina a Bologna, specializzato in pediatria. Era il momento in cui ISAF cercava di ricostruire un sistema sanitario in Afghanistan  e la carenza di pediatri era particolarmente sentita in un’ area dove le famiglie fanno mediamente 10 figli. La risposta fu illuminante: ”perché dovrei lavorare 10 ore al giorno per 350 $ quando ne guadagno 500 per poche ore di guida?”.

 

Omise, il nostro, di denunciare le entrate extra per altri tipi  di “servizietti” al di fuori del consentito. Il tutto venne a galla alcuni anni dopo quando un capitano dei CC, in servizio all’ambasciata, venne ucciso nella valle del Panjsher , essendo stato portato dall’autista pediatra  ad acquistare smeraldi di contrabbando: la pessima idea di farsi accompagnare da una diplomatica lo costrinse ad aprire il fuoco freddando uno dei “commercianti” che voleva la signora in cambio degli smeraldi. Ma la fesseria più grande fu di recarsi dalla polizia locale per denunciare l’accaduto e farsi proteggere dalla vendetta dei parenti del morto. Ovviamente la polizia mise immediatamente l’ufficiale nelle mani dei parenti del morto che lo giustiziarono immediatamente.

 

Ora, chi conosce l’ABC del viaggiatore in Afghanistan sa che in simili frangenti  non ci si rivolge alla polizia bensì al capo del villaggio, perché nessuno oserebbe assaltare la casa del capo del villaggio (altrimenti che capo del villaggio è?) cosa che invece capiterebbe con la stazione della polizia. Una volta nella casa del capo, una buona attitudine al negoziato e una vasta disponibilità di “cash” (dollari americani o anche euro) può magari procurare una scorta fino ad una  zona sicura. Un afghano queste cose le sa anche se si è laureato in medicina a Bologna, solo che il signore, vista la mala parata, aveva abbandonato i sui passeggeri al loro destino.

 

Ma questa è la vera attitudine alla sopravvivenza in Afghanistan: servire un padrone finchè ti può dare qualcosa e venderlo al migliore offerente quando non può più dare nulla. E su questo, devo ammetterlo, ho trovato più correttezza nella trattative con i capi degli insorti che non con coloro che stavano (si suppone) dalla nostra parte. Ed ecco perché bisognerebbe essere estremamente cauti nel portare a casa nostra persone di cui non si conosce esattamente l’estrazione: che cosa potrebbero portare lo vedremo nel prossimo articolo.”

 

———–note

(1)  https://www.google.com/url?client=internal-element-cse&cx=005762714985749922078:ffys0l5r3co&q=https://www.esteri.it/mae/it/sala_stampa/archivionotizie/comunicati/2021/08/afghanistan-ricostituita-ambasciata-a-kabul-presso-la-farnesina-mantenuto-presidio-diplomatico-italiano-in-afghanistan.html&sa=U&ved=2ahUKEwib-5yE8MnyAhWHuaQKHUkMAPMQFjAAegQIBhAC&usg=AOvVaw0EfxBuC8eOwwvRMsw2Gl8P

 

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