Dr. Michele D’Alessio (Giornalista – Agronomo)
Nel 1965, in una lettera al «Giornale del mattino», Don Lorenzo Milani, allora poco più che quarantenne e attivo nella scuola popolare che aveva allestito a Barbiana, borgo vicino a Firenze, scriveva: «chiamo uomo chi è padrone della sua lingua». Il pensiero di Don Milani ci porta a una utile riflessione. Poiché riteniamo che il passato sia soltanto un prologo del presente, siamo convinti che gli antichi fenomeni linguistici non possano essere altro che il prologo della nostra parlata. E se prologo significa anticipare quello che poi sarà il corpo del discorso, come nella tragedia greca, il prologo è ciò che sta prima, ciò che è avvenuto prima dei fatti rappresentati narrati nella tragedia, il prologo del nostro discorso sulla nostra odierna parlata materna riguarderà la conoscenza di tutto ciò che è avvenuto in tempi lontani, dei quali forse si è perduta la memoria. Bisogna scavare per trovare le fondamenta, né più né meno come fa l’archeologo, quando scava con meticolosità un pezzo di terra apparentemente muto, ma che nasconde gelosamente i tesori del nostro passato, il prologo cioè di una comunità. Più dei reperti archeologici, più delle anfore, più delle lamine di bronzo, delle tombe dicono i reperti linguistici che raccontano la storia diacronica del linguaggio. Non è un caso che in paesi vicini nello spazio si parlano a volte dialetti diversi, lontani fra loro. Lo studio della parlata del luogo apre sempre ampi orizzonti. La lingua non è uno stagno ove le acque imputridiscono; essa è un fiume in piena, e la corrente del fiume non è mai la stessa, panta rhei, Come dobbiamo conoscere la sorgente del fiume se vogliamo conoscere la sua natura, così dobbiamo conoscere il prologo, cioè la sorgente, se vogliamo conoscere la nostra lingua parlata, che è la categoria del nostro vissuto che ci fa da manifesto. Come ci racconta lo scrittore ed esperto di comunicazione il Dottore Vitantonio Capozzi “…Il dialetto, dal verbo greco dialegomai, conversare, parlare fra due persone, è stato sempre usato per parlare, per cantare, mai per scrivere, se non quando è assurto a dignità letteraria. Il dialetto è la nostra vera lingua materna, quella che abbiamo appreso dalle labbra della mamma, quella che è stata la base del nostro primo parlare, la lingua nella quale abbiamo imparato a pensare e nella quale, forse, pensiamo ancora. Essa è strutturata secondo regole grammaticali precise, quasi mai conosciute dai parlanti, perché non codificate, ma inconsapevolmente applicate. La grammatica normativa nasce dopo la lingua, quando questa è diventata già adulta e già codificata in testi scritti. Riesce certo difficile studiare scientificamente una parlata, quando mancano i documenti, quando ci si deve fidare solo della oralità e della auralità. La lingua non codificata è in balìa del parlante, non segue regole e schemi. Cronologicamente forma primaria del dialetto è quella orale, secondaria quella scritta, come ben notava Ferdinand de Saussure (1857 -1913), il quale, nel suo Mémoire sur le système primitif des voyelles dans les langues indo-européennes, Lipsia – 1879, acutamente osservava che “La lingua e la scrittura sono due sistemi di segni distinti; l’unica ragione d’essere del secondo è di rappresentare il primo; l’oggetto linguistico non è definito dalla combinazione della forma scritta e parlata; quest’ultima costituisce da sola l’oggetto della linguistica”.
Il linguaggio dei dialetti valdianesi o del Sud Italia, probabilmente, si colloca su di un’originaria lingua di probabile derivazione osco-lucana. Sul punto, in relazione ai Bruzii, Sesto Pompeo Festo, glossografo del II secolo, nel suo De verborum significatu sosteneva che “bilingues Brutantes Ennius dixit, quod Brutii et Osco et Graece loqui soliti sunt”; ovvero, che “Ennio considerò i Bruzii un popolo bilingue poiché parlavano solitamente l’osco e il greco”. In epoca successiva enorme fu l’influenza della latinità e, in seguito, il bizantinismo a lungo conservato nella zona per il perdurare del fenomeno latiniano. A proposito dei Romani, vincitori del mondo e bramosi d’imperare alle genti, non solo, ma anche di sottoporle alle fogge, alle voci, alle condizioni dell’Urbe, dobbiamo osservare che imposero ai Lucani e alle calabre genti non solo il proprio diritto, ma l’obbligo di parlare la loro lingua, ordinando che solo con il latino si rendesse ragione ai vinti, si pubblicassero gli editti dei proconsoli e dei pretori.
Continuando, secondo il Dottore Vitantonio Capozzi una caratteristica dei dialetti “…è l’origine dei soprannomi, che non ha né tempi né leggi tali da consentire la conoscenza di come si siano venuti a formare, tanto che per la maggior parte di essi è difficile dare una giusta chiave di lettura. Spesso la nascita di un soprannome è banale e rimanda ad accostamenti arbitrari. Un’analisi attenta sul come questi soprannomi si strutturano, sul come si evolvono e da dove traggono origine, della funzione che essi stessi svolgono, ci può mettere in condizione di ricomporre alcune tessere del mosaico delle condizioni socio-culturali di una comunità. Molte persone nei paesi del nostro territorio vengono identificati attraverso il soprannome, che diventa così importante per la comunità da prendere il posto del nome. In molti casi il soprannome diventa un vero e proprio emblema di famiglia e, perciò, un simbolo identificativo che crea un senso di appartenenza alla comunità. Esso stesso rimanda a dimensioni culturali profonde e ben radicate nella storia culturale di una determinata realtà locale e può essere visto come un gioco di ruoli a specchi che definisce le personalità individuali spesso creando delle esasperazioni legate a difetti o a pregi relativi a sfumature caratteriali o ad aspetti folcloristici, a fatti, ad un episodio, ad una battuta o ad un’espressione di una persona. Potremmo definire il soprannome una sorta di caricatura linguistica a forte carica espressiva e questo anche grazie alla forma dialettale in cui esso si presenta. Il dialetto è permeato di quella carica istintuale che dà ad esso un’intensità significativa, impregnato di elementi di spontaneità che ci permette di esprimere in modo incisivo le nostre idee, le nostre emozioni, i nostri sentimenti. La lingua dialettale e la fantasia popolare diventano ingredienti preziosi per forgiare creazioni fantasiose e variopinte che prendono forma anche negli appellativi scherzosi o ingiuriosi. Essi vengono trasmessi attraverso le generazioni fino a diventare un patrimonio culturale nella forma del dialetto come testimonianza indiretta di persone, ambienti, situazioni e usanze passate del nostro paese. I soprannomi sono sempre traducibili all’interno di una cultura che dà loro un senso in quanto sono intrecciati nel tessuto relazionale di una comunità. Essi sono infatti decifrabili in relazione a fatti e situazioni all’interno di un particolare contesto culturale fatto di rimandi, metafore, vissuti che dà loro un senso. I soprannomi appartengono a quel cordone ombelicale che ci lega al passato in ogni sua forma; infatti vengono tramandati attraverso le generazioni e fanno parte del patrimonio culturale di un popolo e della sua tradizione, proprio perché esprimono simpaticamente l’anima popolare più schietta e più vera e anche più fantasiosa di una comunità…”
Solo rivalutando i vari frammenti della nostra storia possiamo andare avanti, vista nei vari aspetti anche quelli più quotidiani, più popolari e consueti. Essi ci aiutano a fondare quel senso di condivisione culturale paesana che unifica e dà senso ad una comunità. Senza passato è difficile capire il presente e costruire il futuro.
Il dialetto rappresenta la nostra etichetta, le nostre radici, la nostra carta d’identità. …
L’importanza del dialetto, sta nel fatto che è vicinissimo alla vita quotidiana e verace della gente e rappresenta una diversità di radici storiche, di culture, di esperienze umane che non deve andare perduta.