Il ministero politico di Papa Francesco

 

Angelo Giubileo (avvocato – scrittore)

 

Papa Francesco ha detto: “Le persone omosessuali hanno il diritto di essere in una famiglia. Sono figli di Dio e hanno diritto a una famiglia. Nessuno dovrebbe essere estromesso o reso infelice per questo. Ciò che dobbiamo creare è una legge sulle unioni civili. In questo modo sono coperti legalmente. Mi sono battuto per questo”.

Con queste parole è sembrato che il Pontefice della Chiesa di Roma abbia infranto un tabù e ancor più, oserei dire, l’intera tradizione del pensiero biblico dall’ebraismo al cristianesimo. Ma, la questione è assai complessa, ed è sbagliato pensare che le parole del Papa rappresentino una novità assoluta ed esclusiva. Per capirne appieno il significato più profondo e il discorso che sottintendono, riporterò qui integralmente parte del discorso che l’allieva prediletta di Martin Heidegger, Hannah Arendt, svolge nella sua opera sulla condizione umana dal titolo “Vita activa”, edito nel 1958, ma relativamente alla traduzione italiana di Sergio Finzi del 1997.

E allora partiamo dalla nota 1 al capitolo primo nella quale interamente leggiamo: Nell’analisi del pensiero politico postclassico, è spesso illuminante determinare quale delle due versioni bibliche della storia della creazione sia citata. Così è caratteristico della differenza tra l’insegnamento di Gesù e quello di Paolo il fatto che Gesù, parlando del rapporto tra il marito e la moglie, faccia riferimento a Genesi, 1, 27: Non avete dunque letto che colui che li creò, all’origine li creò maschio e femmina” (Matteo, 19, 4), mentre Paolo in un’occasione analoga sottolinea che la differenza fu creata “dall’uomo” e quindi “per l’uomo” (1 Corinzi 11, 8-12). La differenza indica assai più di una diversa valutazione dell’importanza della donna. Per Gesù, la fede era strettamente connessa all’azione (cfr. § 33); per Paolo, la fede era soprattutto connessa alla salvezza. Di particolare interesse è l’atteggiamento assunto in proposito da Agostino (De civitate Dei, 12, 21), che non solo ignora del tutto Genesi 1,27, ma vede la differenza tra l’uomo e l’animale nel fatto che l’uomo fu creato unum ac singulum, mentre fu disposto che gli animali “nascessero già numerosi” (plura simul iussit existere). Ad Agostino la storia della creazione offre l’opportunità di sottolineare il carattere di specie della vita animale distinta dalla singolarità della esistenza umana.

E dunque abbiamo così chiara una prima differenza tra due diverse concezioni relative alla natura della condizione umana, come singolo (distinto dalla specie animale) o comunità (di due individui); e una seconda differenza inerente allo scopo dell’uomo in quanto tale, ovvero l’azione o la salvezza. Senza giungere a conclusioni affrettate, seguiamo ancora lo sviluppo del discorso dell’Arendt. E allora, sempre al capitolo primo, paragrafo 2, Ella scrive: Il termine vita activa è sovraccarico di tradizione. Esso è antico quanto la nostra tradizione di pensiero politico, ma non più di essa (ndr: la sottolineatura è mia). E questa tradizione, lungi dal comprendere e concettualizzare tutte le esperienze politiche dell’umanità dell’Occidente, è scaturita da una specifica costellazione storica: il processo di Socrate e il conflitto tra il filosofo e la polis. Essa eliminò molte esperienze di un precedente passato che erano divenute irrilevanti rispetto ai suoi immediati obiettivi politici, e si sviluppò in modo altamente selettivo sino a giungere alla fine con l’opera di Karl Marx. Il termine vita activa, che nella filosofia medievale è la traduzione corrente dell’aristotelico bios politikos, già ricorre in Agostino, dove, come vita negotiosa o actuosa, riflette ancora il suo significato originale: una vita dedicata alle questioni pubblico-politiche.

Riemerge così, nel solco della tradizione inaugurata da Platone e Aristotele, ovvero quella dei filosofi postsocratici, un’ulteriore differenza, che fonda le due diverse tradizioni, filosofica (in senso largo) e politica. Ma: mentre la tradizione politica assume da principio, nell’antichità, questo stesso nome e lo conserva nella modernità; la stessa cosa non avviene per il termine “sociale”, che faceva invece espresso riferimento alla tradizione, più ampia e completa, che precede la polis greca. E, in tempi di discredito della politica, torna, per così dire, prepotentemente di moda.

E dunque, l’Arendt scrive: Aristotele non intendeva né definire l’uomo in generale, né indicare la sua più alta facoltà, che per lui non era il logos, cioè il discorso o la ragione, ma il nous, la capacità di contemplazione, la cui principale caratteristica è che il suo contenuto non può essere reso nel discorso (ndr: Aristotele, come lo stesso Platone, e come testimonia Plutarco in particolare nell’adversus Colotem, appartengono entrambi alla tradizione scettica dei più antichi sophoi, la cui sapienza avrebbero voluto fosse stata tramandata dall’Accademia; cosa che, viceversa, storicamente non accadrà). Nelle sue due più famose definizioni, Aristotele formulava solo l’opinione corrente della polis sull’uomo e sul modo di vita politico, e secondo questa opinione, chiunque fosse fuori dalla polis, schiavo o barbaro, era aneu logou, privo, naturalmente, non della facoltà di parlare, ma di un modo di vita nel quale solo il discorso aveva senso e nel quale l’attività fondamentale di tutti i cittadini era parlare tra loro.

Tanto premesso, immediatamente di seguito nel testo, l’Arendt mette in luce il travisamento fondamentale, che differenzia le diverse tradizioni, filosofica (o sociale) e politica, travisamento che s’inscrive nel solco della diversa tradizione e interpretazione del messaggio originale e inoltre così come viene tramandato, direi in modo diverso e a fasi alterne, nella e dalla Chiesa di Roma. Infatti, scrive l’Arendt: Il profondo travisamento espresso nella traduzione latina di “politico” con “sociale” in nessun luogo è più manifesto che in un passo in cui Tommaso d’Aquino paragona la natura del governo domestico al governo politico: il capofamiglia, egli pensa, ha qualcosa di simile al capo di un regno, ma, aggiunge, il suo potere non è così “perfetto” come quello del re. Non solo in Grecia e nella polis, ma in tutta l’antichità occidentale, sarebbe certo stato evidente che anche il potere del tiranno era meno grande, meno “perfetto” di quello esercitato dal paterfamilias, dal dominus sopra la sua casa di schiavi e familiari. E questo non perché il potere di chi governava la città fosse contrastato e controllato dal potere combinato dei capifamiglia, ma perché, propriamente parlando, l’assoluto incontestato dominio e la sfera politica si escludevano a vicenda. E ancora, in nota: I termini dominus e pater familias erano perciò sinonimi, come anche i termini servus e familiaris: dominum patrem familiae appellaverunt; servos … familiares (Seneca, Epistolae, 47, 12). L’antica libertà romana del cittadino si disperse quando gli imperatori romani assunsero il titolo di dominus, “nome che Augusto e Tiberio rifiutavano ancora come una maledizione” (H. Wallon, Histoire de l’esclavage dans l’antiquité, 1847, 3, 21).

Giungiamo così alla fine di questo nostro breve excursus, che segue l’orma del pensiero di Francesco e ci riporta, attraverso le ricerche e l’analisi di Hannah Arendt, alla visione “politica” del suo ministero petrino. Ciò che spiega anche il significato di una frase, ancorché significativa, ripetuta da Francesco come un mantra soprattutto in questi giorni di uscita dell’enciclica “Fratelli tutti”, e cioè: Nessuno si salva da solo. Alla ricerca di una sintesi, che tuttavia la Storia smentisce e viceversa conferma la più antica e definitiva consapevolezza dei sapienti presocratici di una perenne Tradizione.

 

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