Angela D’Alto (opinionista)
L’esito ampiamente previsto delle ultime elezioni regionali campane, che hanno registrato una schiacciante vittoria di Vincenzo De Luca, ha tolto suspence allo scontro elettorale tra i candidati presidenti, concentrandosi esclusivamente sulla competizione interna ai rispettivi schieramenti.
A elezioni concluse, uno dei dati che più è balzato all’occhio di alcuni commentatori è stata la mancata elezione, nella circoscrizione di Salerno, di una donna. I 9 consiglieri eletti, tra maggioranza e opposizioni, sono difatti tutti uomini. Non va troppo meglio il dato complessivo: su 50 eletti, saranno solo 9 le donne presenti nel consiglio regionale. E questo nonostante la legge sulle quote rosa, che ne ha imposto la candidatura per almeno il 40%.
Dunque, le donne vengono candidate ma non elette? Nominate ope legis negli esecutivi ma non votate? Perché si verifica questo?
Eppure, l’elettorato attivo è composto per più del 50% da donne. Che, evidentemente, non votano le donne. Come mai? Ma, soprattutto, è giusta la legge sulle cosiddette quote rosa?
Come per molti temi complessi, esistono logiche argomentazioni da entrambe le parti: sia da di chi le sostiene, sia di chi le ritiene sbagliate.
Facciamo un passo indietro: nel 1975, in tutto il mondo, solo 1 donna su 10 era in parlamento. Dapprima i paesi scandinavi, poi tutti gli altri sono corsi ai ripari, introducendo l’obbligo della presenza delle donne nelle liste elettorali. In Italia, con il Rosatellum approvato nel 2017, si è giunti a prevedere l’alternanza di genere (uomo-donna) nelle liste bloccate, e alla stessa ratio sono stati ispirati gli aggiustamenti introdotti nelle leggi elettorali regionali e comunali.
Al momento, in Italia il 30% del parlamento è composto da donne. Si tratta, però, di donne elette in un sistema elettorale bloccato e privo della possibilità di esprimere preferenze. E difatti, nelle regioni e nei comuni, ove invece le preferenze si esprimono, le donne elette sono in numero decisamente inferiore a quel già risicato 30%.
Torniamo così alla domanda iniziale: perché?
Le cosiddette quote rosa sono state forse un passo necessario, inizialmente, per ridurre un gap non degno di un paese civile. E però, è evidente che ciò non è bastato. Anzi, a voler essere provocatori, in alcuni frangenti pare un rimedio peggiore del male se lasciato fine a se stesso.
È evidente infatti che le donne sono ancora troppo distanti dalla politica e dal suo mondo, che pare abbia smesso di interessarle. Ci sono state, in Italia, stagioni politiche di grande protagonismo femminile, che sia pur in assenza di quote rosa hanno visto le donne impegnate insieme, per battaglie che hanno cambiato il volto del nostro Paese. In un parlamento ben lontano dalla presenza femminile per obbligo di legge, sedevano la Iotti, la Anselmi, e partiti come il PCI arrivavano ad avere una presenza di mezzo milione di iscritte.
Dunque, è innegabile che il problema non è solo numerico, e che all’introduzione delle quote rosa non è seguito un cambiamento di sistema, essendo peraltro venuti a mancare quei luoghi di formazione di una classe dirigente che rendevano una donna un quadro politico, la cui candidatura fosse una naturale conseguenza di impegno, capacità e rappresentatività.
Del resto, il fallimento più bruciante del sistema ‘quote rosa ‘ sta nella selezione delle stesse, che resta nelle mani di dirigenti di partito, che sono sempre maschi. Sono sempre gli uomini a decidere quali donne candidare, con il sistema paternalistico dell’imposizione dall’alto. Col paradosso, dunque, che allo stesso sistema che si vorrebbe combattere perché discriminatorio, si affida il rimedio alla discriminazione, con un meccanismo artificioso e bizantino.
Se a questo aggiungiamo che la politica ha smesso di riconoscere il merito e la competenza, il quadro è completo.
E così si assiste spesso, nella composizione di liste per elezioni amministrative o politiche, alla ‘caccia alla donna da candidare perché lo impone la legge’. Deprimente, innanzitutto per le donne. Ingiusto, perché non di rado vengono nominate donne che hanno il solo merito di essere tali.
Ecco, quindi, perché in molti casi le donne non votano le donne: perché non si riconoscono in una selezione determinata non dalle capacità e dal merito, ma dal mero fatto di essere donne.
E anche quelle donne capaci, catapultate all’ultimo momento dalla cosiddetta ‘società civile’ in un mondo a loro estraneo ed in un meccanismo spietato, spesso pagano pegno. E si allontanano definitivamente dalla politica.
Da donna impegnata da anni nella militanza politica e nelle istituzioni, e senza il ricorso alle cosiddette quote rosa, trovo francamente deprimente l’idea di essere scelta solo in base al genere.
Non mi appassiona la lamentela sulla mancata elezione delle donne candidate. Mi appassionerebbe, invece, una battaglia di sistema, per restituire alla selezione delle classi dirigenti, in tutti i settori della vita pubblica, la centralità del merito e della competenza. Per rendere le donne libere di avvicinarsi a un mondo che sappia attrarle e che non debba cooptarle; per equiparare i salari dei laboratori e delle lavoratrici; perché per una donna che fa politica le relazioni, le sfere affettive, non debbano essere più sacrificate o addirittura annullate; perché le donne possano ambire a qualcosa di più della quota concessa dall’uomo, magari diventando segretario di partito (cosa che allo stato in Italia è riuscito solo a Giorgia Meloni), e selezionando esse stesse, sempre in base a merito e competenza, classe dirigente e candidature.
Non vorrei più assistere, invece, al paradosso della ricerca della donna da mettere in giunta o da candidare all’ultimo momento. Perché queste forzature non funzionano. Perché da queste donne, come è evidente, nemmeno altre donne possono sentirsi rappresentate, e né le quote né una somma di leggi saranno mai risolutive se non si modificano la natura dei partiti e le modalità di militanza.
Dunque, anche in questo caso, come in tanti altri, affidarsi unicamente alle modifiche legislative, a mo’ di bacchetta magica, non serve. La presenza delle donne nelle istituzioni non deve essere concessa solo in base al sesso, ma guadagnata sul campo, con la passione, l’impegno, la capacità e la partecipazione.
È la strada più lunga, certo. Ma è anche l’unica per dare alle donne la dignità che meritano.
Descartes diceva che due cose contribuiscono ad avanzare: andare più rapidamente degli altri o andare per la buona strada.
La prima, da sola, non ha funzionato. Proviamo con la seconda.
Verissimo. Merkel ne è l’esempio. Una legge non può dare da sola autorevolezza. Io quando voto non penso al sesso del candidato, ma alla capacità. Sbaglio io?