Avv. Giovanni Falci
(penalista – cassazionista)
SALERNO – La notte precedente, come la famosa “notte prima degli esami” non fu tranquilla. Non riuscivo a prendere sonno e chissà perché ero preoccupato di non svegliarmi in tempo. Era necessario arrivare in orario perché c’era stata, nei giorni precedenti, durante quelle caldissime udienze di luglio, una polemica tra il Tribunale e l’Ordine degli avvocati di Napoli.
Era successo che un paio di volte il Presidente si era trovato nella impossibilità di comporre il collegio dei difensori perché non erano, “immediatamente reperibili” come si dice in gergo tecnico, difensori di ufficio per quegli imputati che risultavano privi del proprio difensore di fiducia, non comparso.
Questa era una situazione nuova che veniva fuori proprio in questa fase della “discussione”. Accadeva, infatti, che non tutti gli avvocati si presentavano in udienza per seguire la discussione dei colleghi impegnati e prenotati per quella tale data del calendario delle udienze; io stesso, dopo la prima udienza, non ero più ritornato in aula nelle successive, io aspettavo solo il mio turno, il 31 luglio.
Il Presidente allora aveva avanzato una protesta per iscritto al consiglio dell’Ordine degli avvocati chiedendo che venisse risolta questa questione che determinava ritardi lunghissimi nell’inizio della celebrazione del processo.
Gli ostacoli erano di due specie: la prima non tutti gli avvocati presenti potevano essere nominati di ufficio per altri imputati oltre i loro assistiti. Ragioni di incompatibilità delle difese si presentavano per esempio per i pentiti. Era evidente che se un avvocato difendeva un cliente accusato per esempio da D’Amico Pasquale, u’ cartunaro, non poteva difendere, sebbene di ufficio lo stesso D’Amico. Come si sarebbe dovuto comportare nella strategia da seguire? Avrebbe dovuto dire “il mio cliente D’Amico è un bugiardo, non è vero quanto dice a carico di Tizio” e poi, subito dopo “D’Amico merita tutte le attenuanti per avere confessato il reato da lui commesso insieme ai suoi complici tra cui Tizio”.
E’ chiaro che questo sarebbe stato impossibile e perciò veniva vietato dal codice.
Il secondo ostacolo era l’ubicazione dell’aula in cui si svolgeva l’udienza, all’interno del carcere e non in Tribunale. La sede del tribunale in questi casi, non avrebbe comportato grandi difficoltà; il cancelliere sarebbe uscito nei corridoi del palazzo di giustizia e avrebbe chiesto il “piacere” a qualche avvocato di passaggio di prestarsi a essere designato di ufficio al solo fine di far iniziare e celebrare l’udienza. Chiunque si sarebbe prestato perché, una volta esaurita la fase della costituzione delle parti, l’avvocato di ufficio era “libero” di andarsene. E tutto questo alla faccia del principio della “effettività” della difesa sancito in molte pronunce della Corte EDU di Strasburgo. Ma così è, noi siamo europei per tante cose pratiche, economiche, finanziarie, per l’euro, ma meno per la giustizia. In quel campo in Europa siamo dei veri pregiudicati il più delle volte recidivi, viste le condanne che, come Italia, riportiamo per opera dei giudici europei perché il nostro sistema processuale e anche sostanziale viola i principi sanciti nella Convenzione dei Diritti dell’Uomo.
La polemica era stata abbastanza forte, (aveva affermato il Presidente che ciò avveniva “per colpa degli avvocati”), aveva avuto la sua eco mediatica come tutto ciò che avveniva in quel processo, e, come sempre, fu risolta con il buon senso degli avvocati, in particolare con il buon senso dell’avv. Vincenzo Maria Siniscalchi, all’epoca Presidente dell’Ordine di Napoli. L’avv. Siniscalchi aveva garantito personalmente che con alcuni colleghi, si sarebbe fatto trovare nell’aula Ticino al momento della costituzione delle parti, assicurando così l’inizio regolare dell’udienza. Tutto il clamore era finito.
C’era stato addirittura, la male lingue, chi ipotizzava che questa situazione di “ostruzionismo” fosse stata creata ad arte dagli avvocati per far maturare il termine di scarcerazione automatica per decorso dei termini massimi di carcerazione preventiva.
Non ricordo quale testata e quale giornalista avesse ipotizzato questo scenario, di certo non poteva essere, per ragioni anagrafiche Travaglio, anche se ce lo avrei visto bene in quel contesto con quel suo sorrisetto ironico e maligno, sempre in competizione con i garantisti nell’unica speranza e obiettivo di scandalizzare e di apparire a tutti i costi.
Bisognava, allora, quel giorno, ancora di più essere puntuale per non essere scortese con quella bella persona che avevo avuto il piacere e l’onore di conoscere in quel processo, l’avv. Vincenzo Maria Siniscalchi.
Iniziai a prepararmi a casa dopo una doccia, con i capelli ancora bagnati, nella camera da letto dove c’era anche il lettino di Maria Antonietta all’epoca l’unica mia figlia, di quasi 5 anni (Mariella per tutti).
Ricordo che mi guardava sott’occhio senza dirmi niente. Ora che ci rifletto meglio, con lo stesso sguardo del figlio, mio nipote Ettore. Chissà cosa pensava, chissà se mi avrà visto come un eroe, come un torero che indossa il Traje de Luces, il tradizionale abito dei toreri, il cui nome deriva dai mille riflessi di luce che rimandano le paillettes cucite al vestito, paillettes che per la verità con c’erano sul mio completo di cotone color panna di Burberry. Ma, si sa i bambini hanno molta fantasia e quel suo papà che mentre si annodava la cravatta le strizzava l’occhiolino sicuramente stava per fare qualcosa di importante, qualcosa che non lo avrebbe fatto andare al mare con lei quel giorno.
Uscii di casa senza neanche prendere il caffè perché Mariella, l’unica persona sveglia insieme a me, non sapeva farlo a poco meno di 5 anni, e neanche io.
Ma non ce ne era bisogno, l’adrenalina era già alta abbastanza.
In autostrada accesi la radio e sulle frequenze di R.M.C. sentii “la vita è adesso” di Claudio Baglioni (cantante che non incontra i miei gusti); pensai che quel titolo e quel testo andavano bene quel giorno come colonna sonora per quello che mi accingevo a fare. E pensai anche che io sapevo bene come ci si sentiva quando si era accusati da un pentito.
Colpevole o innocente era il gesto del “tradimento” di un “amico” che faceva male.
Io conoscevo quello stato d’animo fin dal 1 ottobre 1960, cioè 25 anni prima.
Era il primo giorno di scuola, ero iscritto alla II elementare perché avevo fatto la “primina” da privatista (all’epoca non si poteva andare a scuola a 5 anni).
Ero stato iscritto in un istituto, Medaglie d’Oro, che quel giorno veniva inaugurato; ricordo il Sindaco con la fascia tricolore, il taglio del nastro e tutta la cerimonia.
In classe mi misi nel banco con Vittorio Provenza che era l’unico bambino che conoscevo perché i nostri genitori erano colleghi e si frequentavano; prendevano anche la “cabina” al mare insieme. Ci sedemmo all’ultimo banco e io iniziai ad avere un fastidio alla gola causato dalla polvere che ancora residuava dei lavori edili terminati forse il giorno prima.
Dissi a Vittorio se lui avesse lo stesso problema, ma lui mi rispose di no.
A un certo punto non ce la feci più e non sapendo come fare, sputai a terra. “Maestro, Falci ha sputato a terra” disse Vittorio alzandosi per farsi vedere bene.
Il maestro, Modesto Ferrara, con il quale stavamo facendo conoscenza quel primo giorno di scuola, venne vicino il nostro banco e “trovò” il mio sputo; in gergo tecnico trovò il “riscontro esterno” alla accusa c.d. dichiarativa.
Mi disse di seguirlo e, giunto vicino alla cattedra davanti a tutti i miei compagni con i quali avrei passato 4 anni della mia vita e con alcuni di loro anche molti di più (vedi Vittorio), mi disse: “dimmi un poco tu a casa tua sputi per terra?”; ovviamente risposi di no; e lui, di rimando, “e allora neanche in classe devi sputare, questa è la tua seconda casa”; senza neanche il tempo e forse il coraggio di dirgli quel fatto della polvere e che, a casa mia ero libero di muovermi e andare nel bagno a sputare, il maestro mi chiese di allungare la mano.
Ubbidii e lui prese una bacchetta di legno, doppia, colore castagno chiaro e partì per colpire il mio palmo della mano protesa. Ebbi un bel riflesso che mi ha accompagnato in tutta la mia vita di tennista e tirai indietro la mano facendo andare a salve il colpo di bacchetta del maestro.
Non l’avessi mai fatto. Apriti cielo, incazzatissimo per la disubbidienza di non avere accettato la punizione, e anche per avere fatto una figura di merda davanti alla classe, mi diede una serie di bacchettate sulle braccia e sulle spalle. Fu allora che l’intera classe capì cosa ci aspettava in quegli anni di elementari ed io capii come fosse triste e doloroso essere accusati da un amico.
Ogni anno (quest’anno ricade il sessantesimo anniversario e abbiamo deciso di festeggiare alla grande) ricordo a Vittorio quella sua accusa all’amico, da vero uomo di merda, e lui continua a dire: “però avevo detto la verità”.
E lo ricordavo anche in macchina mentre andavo incontro alla prova del nove della mia professione. Chissà se quella esperienza non abbia contribuito a farmi fare l’avvocato per difendere gli accusati.
Pentiti o meno, in un processo penale l’imputato è sempre accusato!
Arrivato davanti l’ingresso laterale di Poggioreale trovai il parcheggio quasi subito, il 31 di luglio portava con la sua afa questo piccolo vantaggio di una città mezza vuota.
Presi il caffè in un bar che si era aperto lì vicino proprio per il “processo” e che viveva solo di clienti impegnati nell’aula Ticino. Il titolare ci conosceva tutti e mi disse quel giorno “oggi tocca a voi avvocato?” gli risposi affermativamente ma senza dilungarmi. Evidentemente lo tenevo scritto in faccia che era “il mio giorno di gloria”, una faccia stranamente pallida per il periodo, ma se studi un processo del genere non puoi avere facce abbronzate.
Entrai nell’aula con il fascicolo sotto un braccio e la toga sull’altro.
Vidi l’avv. Siniscalchi che era lì in prima fila e aspettava che il Tribunale uscisse; gli andai vicino, posai tutto con calma sul banco, anche il libro dei “Discorsi di Lisia” di mio padre, mi tolsi la giacca che appoggiai sulla spalliera della sedia e infilai la toga, senza bavaglino.
Mi girai verso le “gabbie” e vidi che c’erano pochi detenuti.
In effetti venivano in aula quelli interessati alla loro difesa. P.A. non era presente perché in “osservazione” all’O.P.G. di Reggio Emilia fin dalla requisitoria del P.M.; ma il fatto singolare era che non c’era neanche P.A.2.
Mi disse successivamente che si era dimenticato che il 31 era “il mio giorno”, e gli era dispiaciuto perché i “suoi compagni” gli avevano detto che ero stato bravo.
Passò un po’ di tempo nel quale ci fu qualche collega che faceva notare che ci saremmo dovuti risentire, avremmo dovuto protestare per il ritardo del Tribunale e del P.M. a entrare in aula così come si era risentito, “lui”, il Presidente sulla questione del difensore di ufficio.
Arrivò Gianzi che mi raggiunse con la sua camminatura dinoccolata e mi salutò, con il suo accento e cadenza calabrese che non ha mai perso neanche dopo 70 anni che vive a Roma; salutò Siniscalchi e gli altri colleghi e si mise a sedere alla mia destra.
Quell’uomo aveva l’abilità di rincuorarmi, di tirarmi su, di rasserenarmi, e lo faceva con un semplice sorriso, naturale, guardandoti con quegli occhi buoni che sovrastano un fisico imponente, massiccio, ma che nello sguardo diventa angelico, gentile, tenero, affettuoso.
Se gli occhi sono lo specchio dell’anima, quelli di Peppino Gianzi sono uno specchio lindo, pulito perché il suo animo è precisamente quello che i suoi occhi rappresentano: la bontà.
A un certo punto la campanella, come quella della II elementare di quel giorno che mi era tornato in mente in macchina, annunciò l’entrata del Tribunale e, dopo l’appello, come in II elentare, e la costituzione delle parti, il Presidente, sorridendomi con l’affetto di “quelli grandi” verso i “ragazzi”, mi disse “prego avvocato Falci”.
“Sig. Presidente, signori giudici del Tribunale, sono l’avv. Giovanni Falci del Foro di Salerno e prendo la parola in questo, lungo, complesso, articolato processo che potrei definire un nodo molto intricato, in gran parte sciolto, che però attende di essere risolto da una vostra sentenza (…)”.
Avevo rotto il ghiaccio, mi girai alla mia sinistra e vidi l’avv. Siniscalchi che con il gomito sinistro sul banco e con la testa appoggiata alla sua mano sinistra, mi guardava e non si era alzato per lasciare l’aula dopo aver garantito l’inizio della udienza. Dall’altro lato alla mia destra vidi l’avv. Gianzi che mi fissava intensamente nella toga che già aveva indossato, e per guardarmi meglio aveva girato la sedia nella mia direzione.
Mi trovavo in mezzo alla storia dell’avvocatura degli anni 80 sicuramente, ma anche di dopo, e penso di sempre. Ero un giovanotto che stava tra Pelè e Maradona.
Sospirai per prendere fiato perché, vi assicuro non è semplice discutere la causa e sapere che hai quel pubblico. E’ un poco come per un pianista eseguire una musica al pianoforte davanti a Ludwig van Beethoven e Fryderyk Chopin. In quel caso tremerebbero le mani, nel mio tremava la voce, anche se, con il passare del tempo la eccitazione del momento ti fa dimenticare anche dove ti trovi e ti fa superare paure e apprensioni.
A un certo punto, più o meno a metà delle discussioni viene, in ogni arringa, quella che definirei la fase catartica, ci si libera di quanto fino a quel momento ci si è contenuto dentro, si espone e si grida la propria verità e si instaura un rapporto con il giudice di scambio telematico, si vuole cercare di entrare nella testa del giudice, di colpire il suo cervello e si vuole che ragioni come tu gli stai proponendo. Una volta, invece, si cercava di colpire il cuore e i sentimenti del giudice. E’ questa la magia della discussione: questo “dialogo, tra il nostro pensiero declamato, esplicitato, addirittura, a volte, gridato, e quello del giudice, represso fino a quando parlerà con la sua sentenza.
“Allora sig. Presidente sig.i Giudici la prima questione riguarda l’attendibilità delle dichiarazioni dei pentiti. Ora io vi domando: assolvereste un qualsiasi imputato se io portassi a testimoniare il suo compagno di cella che vi dicesse che quell’imputato, ogni giorno, ogni sera, piange e si dispera e dice che egli è innocente? Io penso di no. Mi rispondereste forse che non è possibile perché quella del compagno di cella è una testimonianza interessata dal voler favorire l’amico. E allora perché dovreste condannare se l’accusa consiste come per P.A.2 nel fatto che il pentito vi dice che ha saputo proprio da lui, da P.A.2, nel carcere dove erano ristretti entrambi, che egli faceva parte della NCO. Che differenza c’è? Se accusa è credibile e se invece scagiona no?. Badate Sig.i Giudici che anche per costoro che accusano c’è una ragione sottostante che giustificherebbe le loro propalazioni e sono i benefici che più o meno clandestinamente ricevono”.
Avevo dato il primo colpo mio personale!
Questo esempio e questo valore della prova, questo più o meno di credibilità collegato al teorema accusatorio o alla strategia difensiva non era stato ancora detto.
Mi girai, era passata circa mezz’ora e vidi Gianzi a destra che annuiva quando mi girava verso di lui quasi ad incoraggiarmi, e, cosa veramente strana, dopo mezz’ora, Siniscalchi alla mia sinistra sempre con la testa appoggiata alla mano sinistra.
“Ma ora passiamo alla seconda questione: che significa: “io so che P.A. fa parte della NCO?”. Sul piano della prova che significa questa affermazione? Io vi dico che non rappresenta niente!, meno di zero. E’ un giudizio non la descrizione di un fatto”.
Pausa ben studiata, movimento ad allontanare la sedia da dietro, sguardo diritto negli occhi del Presidente. “Sig. Presidente, voi ve la sentireste di condannare P.A. se D’Amico vi venisse a dire: so che P.A. ha fatto una rapina? Io vi dico, sicuramente no, perché altrimenti se così non fosse, oltre a dovervi fidare che il pentito dice la verità, dovreste fidarvi che dice la verità anche in ordine agli elementi costitutivi del reato di rapina che è un fatto che esula dalla testimonianza. Dovreste cioè fidarvi che D’Amico conosca gli elementi costitutivi di quel reato, rapina, di cui accusa P.A.. E chi vi rassicurerebbe che il pentito non abbia volgarizzato il termine e abbia inteso con rapina volervi riferire di un furto?. Diverso sarebbe se dicesse: “ho visto, o anche solo, io so, mi è stato detto, che P.A. è entrato in banca con un mitra e si è fatto consegnare i soldi dal cassiere”. Qui saremmo tutti sicuri di dover ragionare intorno a un fatto non a un concetto.. E allora (pausa) in questo caso, nel nostro processo, quando vi dice: so che P.A. è un camorrista della NCO di Nocera voi dovreste fidarvi che egli sappia ricostruire gli elementi costitutivi della fattispecie di cui all’art. 416 bis c.p.. E’ chiaro che le cose non possono andare così. Il pentito vi deve raccontare un fatto; vi deve dire P.A. ha fatto questo, ha fatto quest’altro e poi sarete voi, Giudici, a dire questo significa aver violato l’art. 416 bis c.p. Altrimenti la sentenza la scrive il pentito anche in punto di diritto. Ecco vedete, sig.i Giudici il mio appello che vi rivolgo che è il coro di tutti noi difensori è quello di volervi restituire quel ruolo che vi è proprio e che i pentiti cercano di usurparvi”.
Questa volta a destra Gianzi mi sorrideva addirittura apettamente, e a sinistra Siniscalchi, immobile al suo posto dopo 50 minuti, mi faceva ampi gesti di consenso con la testa. Ero stato promosso sul campo! Era fatta!
L’ultimo colpo lo potrei definire, il tocco di classe con il quale conclusi dopo 62 minuti la mia discussione (è l’orario riportato sulla cassetta registrata), fu Lisia.
Pausa, nelle orecchie il testo di Baglioni di qualche ora prima “sei tu che porti avanti il cuore ed il lavoro tuo, essere uomo e non sapere cosa sarà il futuro …. sei tu, in questo istante immenso, sopra il rumore della gente”.
“Vedete sig. Presidente, Sig.ri del Tribunale io vorrei concludere senza alcun accenno alla giurisprudenza che tutti i colleghi vi hanno già proposto nel corso dei loro interventi. E’ inutile, la conoscete già, dovrei ripetermi e annoiarvi. Io voglio concludere con le parole di un mio vecchio collega di 2500 anni fa: Lisia.
Diceva Lisia ai suoi giudici (presi con flemma il libro di mio padre e lo aprii tirando fuori il foglietto scritto con la Olivetti e iniziai a leggere testualmente): costoro, i delatores, che hanno commesso i più atroci delitti, che si trovano in una situazione che peggiore non potrebbe essere, costoro, pur di lucrare un minimo beneficio, sarebbero capaci di tutto anche di accusare un innocente. Perciò diceva Lisia ai suoi Giudici, fate attenzione, la stessa attenzione che sono certo voi metterete per mandare assolti i miei assistiti come essi si meritano”.
Il presidente mi ringraziò e dettò a verbale le conclusioni e decise una interruzione di 10 minuti (ritengo che qualcuno del collegio fosse un fumatore).
Uscimmo dall’aula all’aperto nel cortile del carcere e lì ho ricevuto una medaglia di cui vado orgoglioso.
L’avv. Siniscalchi mi abbracciò e mi disse: “bravo Falci, avevo capito nell’incipit che avresti detto cose intelligenti e così è stato. Mi fa veramente piacere, per la nostra professione, che ci siano giovani come te capaci e soprattutto culturalmente attrezzati”. Mi ridiede la mano e se ne andò, dopo la mia discussione che aveva sentito per intero il 31 luglio 1985.
Un trofeo che non dimenticherò mai!
E’ quell’istante fantastico in cui dura la vita, adesso (detto allora) sempre come dice Baglioni in quel pezzo di quel giorno.
Il tutto avveniva sotto lo sguardo di Peppino Gianzi che un po’ in disparte assisteva compiaciuto ai complimenti che ricevevo dall’avv. Siniscalchi. Una parte di quei complimenti erano i suoi. Se avevo fatto quella discussione lo dovevo anche alle “lezioni” che avevo ricevuto da lui nel corso della frequentazione del suo studio, lezioni che continuò a darmi quel giorno e che non ha mai smesso di darmi neanche ora che a 88 anni in Cassazione illumina la scena come un giovane leone.
A seguire, prese la parola il Prof. Gianzi e tornai subito dall’Olimpo con i piedi a terra. Fu semplicemente, come sempre, quindi, naturalmente eccezionale.
Dopo che ebbe finito Gianzi, approfittammo dei 10 minuti di sosta-fumo e andammo via, il professore alla stazione a prendere il treno per Roma, io a Salerno a riposare.
Qui viene un’altra cosa singolare che in tutta la mia vita mi è capitato solo allora.
Giunto a casa pranzai qualcosa di veloce e dissi che avrei voluto riposare un poco. Non me la sentivo di andare a mare, se ne sarebbe parlato il giorno successivo. Detto fatto mi misi a letto e, questa volta, presi sonno subito.
Devo dire che il mio riposo pomeridiano è meno difficoltoso di quello notturno, è il mio vero riposo. Le volte che sono costretto a saltarlo sono uno straccio durante tutto il pomeriggio.
Presi sonno e dormii fino alle 08:00 del 2 agosto!
Tranne una piccola interruzione alle 4 del mattino del 1 agosto (pensavo che ero ormai sveglio e non avrei ripreso sonno), ho dormito ininterrottamente.
Ho, praticamente, dormito 42 ore di fila. Non penso che fosse stato solo sonno.
Penso che fosse catalessi!
A dopo per le arringhe dei big e la sentenza.
Giovanni Falci