di Angela D’Alto
SALERNO – La mia generazione è quella dei quarantenni, cresciuti con pane e nutella e i cartoni di Bim Bum Bam, andati a scuola con lo zaino Invicta sulle spalle, ascoltando Vasco Rossi e guardando Beverly Hills 90210, mentre il Muro di Berlino crollava e si sognava con Baggio e Schillaci nelle notti magiche di Italia ‘90.
La mia generazione è quella cresciuta senza internet, ma che si è ritrovata adulta nello sconvolgimento prodotto da internet e dalla globalizzazione. È quella che ai tempi delle superiori scendeva in piazza per protestare contro ogni ministro della pubblica istituzione, senza manco sapere il perché, e che immaginava per sè un futuro migliore di quello dei propri genitori. La mia generazione ha perso. E forse, non ha nemmeno mai iniziato a combattere, convinta com’era che bastava essere giovani ‘a prescindere’ per avere ragione, come gli adulti ci avevano spiegato. E oggi, la mia generazione è quella che non vive meglio dei propri genitori, e ha messo al mondo figli che hanno una prospettiva più complicata della propria.
Una generazione sconfitta e disillusa, che però non ha perso ‘sul campo’, come quella dei sessantottini, ma per inerzia. E che con altrettanta inerzia reagisce alla sconfitta, sviluppando la sindrome del deresponsabilizzato: perde il senso e la misura delle proprie responsabilità. “Non è colpa mia” è la tipica frase ripetuta ogni volta da chi non vuole assumersi la responsabilità delle sue azioni. E così, questa sindrome del deresponsabilizzato, da individuale è diventata collettiva, trasferendosi all’intera società. Perché la rabbia sociale, anche quella passiva, è contagiosa.
Lo psicoanalista svizzero Jung scriveva “Chi guarda all’esterno, sogna. Chi guarda all’interno si sveglia“. Ma noi, dentro noi stessi, non sappiamo più guardare.
Secondo Wayne Dyer, “dare la colpa ad altri è un piccolo e pulito meccanismo che puoi usare ogni volta che non vuoi prenderti la responsabilità per qualcosa nella tua vita. Usalo ed eviterai tutti i rischi e impedirai a te stesso di crescere”.
E noi, tutto sommato, non siamo cresciuti.
Eterni ragazzi, scontenti e rabbiosi, ancora tanto figli ma già padri e madri, bravi ad attribuire le cause di ogni fallimento o mancato successo esclusivamente all’esterno. Che si tratti dell’insegnante, dell’immigrato, della dirimpettaia, delle banche, del governo o delle scie chimiche.
Siamo troppo vecchi per sognare, progettare e combattere, e troppo giovani per arrenderci e smettere di odiare. Ci resta l’amarezza, la rabbia. Perché in fondo siamo stati anche un po’ sfortunati: non ci siamo fatti le ossa combattendo per rimettere su l’Italia dalle macerie della guerra, come i veterani, non abbiamo vissuto la grande ripresa economica dell’Italia, come i baby boomers, e non siamo nati in un mondo già globalizzato come i millennials. Siamo la generazione X, incapace di riconoscersi o addirittura insofferente verso valori e abitudini dei baby boomers , e non in grado di connettersi coi nativi digitali. Rancorosi verso i ‘vecchi’, che ci hanno preceduto, e pieni di sensi di colpa verso i giovani, ai quali sappiamo di non poter offrire una prospettiva migliore della nostra.
E quelli che, della nostra generazione, hanno raggiunto il potere politico, non hanno pensato ai propri coetanei: da Renzi e Boschi a Salvini, nessuno di loro ha provato seriamente a rimettere in piedi i quarantenni, e ad offrire loro una prospettiva differente, non cogliendo quanto fosse cruciale la crisi profonda di questa generazione di mezzo, di chi non è ancora vecchio , nè più abbastanza giovane.
E sì, le generazioni falliscono. Ma questo ‘fallimento’ ha contagiato l’intera società, trasferendo ad essa un gigantesco senso di deresponsabilizzazione. E così oggi si giustifica qualsiasi cosa, in nome di una ‘colpa’ sempre altrui. I nostri figli bevono e si mettono alla guida ubriachi, correndo come i pazzi e causando una tragedia? È colpa delle strade non sicure, della polizia, o al massimo del destino cinico e baro. Fanno i bulli a scuola? È colpa dell’insegnante che li ha provocati. Non si realizzano nella vita? È colpa della società. Abbiamo una dannata paura di riconoscere le colpe, anche nostre, e rischiamo di tirare su una generazione deresponsabilizzata, abulica e prepotente. Questa rabbia sociale la pagheremo tutti, e per primi la pagheranno i nostri figli. E continuando ad alimentarla, non faremo del male al politico di turno, all’istituzione indifferente, ad una entità astratta chiamata società. Faremo del male a noi stessi, ancora una volta.
Nel frattempo, la nostalgia ci assale. Mettiamo su un vecchio vinile di Freddy Mercury, e sulle note di It’s a hard life pensiamo a Kurt Cobain, ai primi Motorola, ci commuoviamo per Luke Perry e vorremmo tanto tornare a rimettere l’invicta sulle spalle, per riavere indietro i nostri 18 anni e capire che non sarebbe bastato solo essere giovani per avere ragione della vita.
Bellissimo. È tutto così vero.