INFORTUNI: la strage di Sanza del 1977

 

Aldo Bianchini

SALERNO – Quello degli infortuni sul lavoro è un tema ricorrente nel nostro Paese, un tema che si inasprisce con accuse reciproche tra le parti sociali ogni volta che un lavoratore perde la vita per “causa violenta in occasione di lavoro dipendente e/o autonomo”.

La media degli infortuni mortali rasenta il numero di tre per ogni giorno; vale a dire che nonostante la nostra complessa ed articolata legislazione in materia che parte da lontano, come ho già scritto nel precedente articolo del 2 settembre scorso, a commento di quei due poveri lavoratori (Donato Telesca (53 anni) e Leonardo Nolè (54 anni) morti in una cisterna piena di anidride carbonica utilizzata in precedenza come sito di stoccaggio per i rifiuti urbani nel comune di Aliano (MT), e soprattutto alla luce della morte dei quattro lavoratori di Arena Po’ (TO) “Prem e Tarsem Singh – Armin der Singh e Maiinder Singh”, senza parlare di Mario Ferrara, cinquantacinquenne, schiacciato tra camion e cancello a Tramonti (SA), ci si rende subito conto che c’è senza dubbio molto da fare, ancora.

Nel rimarcare le carenze infinite della “cultura della sicurezza sul lavoro” e le varie sfaccettature della tipologia degli infortuni legata alle condizioni psico-fisiche e intellettive del lavoratore, avevo lamentato che a distanza di 42 anni dalla strage di Sanza del 1977 nulla è cambiato nella gestione della prevenzione e, soprattutto, nulla è cambiato nella cultura diretta che ogni lavoratore dovrebbe acquisire per meglio tutelare la sua stessa vita.

Ed accade che a distanza di 42 anni altri lavoratori muoiono esattamente come quelli di Sanza nonostante nel frattempo siano state attivate, almeno sulla carta, una serie innumerevole di leggi e decreti che, però, sul piano pratico non hanno sortito gli effetti sperati; e i laboratori, anche per loro colpa, continuano a morire.

RACCONTO: La strage di Sanza del 28 maggio 1977 (parte prima)

Cimitero di Sanza visto dall'alto

“”In una campagna poco lontano dal centro abitato di Sanza un coltivatore diretto (Antonio De Mieri) era intento all’irrigazione del suo orto per la produzione di ortaggi e verdure. Per compiere detta operazione aveva calato nel pozzo (presente ai limiti del terreno) una scala di legno e tra un piolo della scala e la parete del pozzo aveva sistemato una tavola sulla quale aveva poggiato un autoclave a scoppio con una sonda immersa nell’acqua del pozzo stesso. Con un tubo di gomma molto lungo, agganciato all’uscita superiore dell’autoclave, provvedeva ad aspirare acqua utile all’irrigazione dell’orto. Una operazione che aveva compiuto centinaia di volte. Lavorava con una certa agilità e abilità De Mieri, ogni tanto salutava anche i vicini di terra ugualmente impegnati nel lavoro dei campi; vide anche sua moglie intenta, poco più in là, ai lavoretti di contorno per la buona tenuta dell’orto. Tutto filava liscio e mai avrebbe pensato che da lì a qualche minuto si sarebbe verificata una tragedia immensa che avrebbe trascinato se steso, la sua famiglia e le famiglie di altri in un baratro senza fine, inclusa l’intera comunità di Sanza. All’improvviso il motore dell’autoclave si spense e l’acqua smise di scorrere; qualcosa di sicuro era successo. Anche un po’ infastidito De Mieri si avvicinò al pozzo e resosi conto che doveva riavviare il motore si calò al suo interno senza capire o senza tener conto che una causa per lo spegnimento del motore doveva pur esserci; soltanto dopo si saprà che il motore si era spento perché l’anidride carbonica prodotta dal motore a scoppio aveva consumato tutto l’ossigeno contenuto nel pozzo e che l’assenza di ossigeno aveva provocato lo stesso spegnimento. Senza indugio e senza alcuna precauzione il contadino si calò dentro il pozzo, dopo aver superato il muretto di cinta, e incominciò a scendere i primi pioli della scala di legno che lui stesso poco prima aveva calato. Nel frattempo la moglie lasciò l’orto per recarsi al pozzo e capire se poteva essere d’aiuto o meno per il marito; fece in tempo a vedere la testa del marito che scompariva nel pozzo. Non sapeva, non poteva sapere, che non lo avrebbe rivisto vivo mai più. Non un gemito, non un grido d’aiuto, niente; la moglie si affacciò sul muretto ma il buio non le consentì di vedere niente, il buio era totale; chiamò il marito, prima a bassa voce poi gridando, nessuna risposta. Pochi attimi poi resasi conto che qualcosa di grave potesse essere accaduto incominciò a chiamare aiuto a gran voce. Cento metri più in là un altro contadino alzò la testa e vide che la sua vicina gesticolava, non riuscì a capire cosa stesse accadendo, ma istintivamente lasciò il suo lavoro e prese a correre verso il pozzo e verso quella che sarebbe stato il suo triste destino”.

Per ragioni di spazio, vi rimandiamo al prossimo articolo per la conclusione della storia della strage di Sanza del 1977.

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