Aldo Bianchini
MONTE SAN GIACOMO – Ormai le presentazioni al pubblico di libri, soprattutto quelli di poesie, straripano ed assumono, nella quasi totalità dei casi, le vesti di ostentate esibizioni pseudo cultural-letterarie di personaggi-autori alla ricerca di quei pochi minuti di pubblicità a basso costo tra amici e parenti più che propensi all’applauso stanco e ripetitivo pur di far registrare la propria presenza a chi controlla l’afflusso o il deflusso dalle sale (più o meno importanti) nelle quali avviene la sbandierata pubblicizzazione dell’incontro.
Con questo spirito, piuttosto rilassato, mi sono recato in compagnia del mio inseparabile amico Pierino (al secolo dr. Pietro Cusati, giudice tributario e giornalista) in quel di Monte San Giacomo dove, nell’ambito di Palazzo Marone, si doveva tenere domenica sera (16 giugno 2019) la presentazione al pubblico del libro “STARICI, paroli ri ina vota” scritto in dialetto teggianese dal noto docente scolastico prof. Rocco Cimino, un libro pensato (parole dell’autore !!) ancora prima dell’uscita in libreria del famoso “Io, speriamo che me la cavo” di Marcello D’Orta.
Ci sono andato più per le insistenze del mio amico che per mera convinzione personale, sono talmente intristito da queste ripetitive e inconcludenti presentazioni che cerco nei limiti del possibile (attesa la mia attività di giornalista) di tenermene alla larga; oltretutto in una domenica di metà giugno dove non c’era proprio niente da fare non ho esitato ad accettare l’invito anche perché sia Palazzo Marone che l’intero paese di Monte San Giacomo sono siti e luoghi che uno difficilmente si stanca di visitare. E poi per rispetto dell’Amministrazione Comunale (retta da raffaele Accetta con assessore alla cultura Angela D’Alto) che sa sempre cosa e come scegliere per fare cultura socializzante.
Ad attrarre la mia attenzione, però, c’era in partenza la parola “STARICI” che io, nativo di Muro Lucano in provincia di Potenza, sentivo molto spesso pronunciare, come in una recita sceneggiata, da mia madre che utilizzava spesso questo termine come una sorta di combinato-disposto per indicare e stigmatizzare una serie infinita di momenti di socializzazione familiare allargata alla comunità che ci circondava; il suo “STARICI” (dall’etimologia incerta, dubbiosa e contraddittoria) era sempre lì, pronto a rappresentare le mai ripetitive situazioni di vita vissuta; uno STARICI, molto simile a quello di Cimino, che a seconda di come si stampava nelle contrazioni somatiche del volto voleva significare tante e tante cose, anche semplicemente visive.
Come dicevo, al di là di queste piccole digressioni, mi sono recato a Monte San Giacomo più annoiato che interessato; mi sono dovuto, però, subito ricredere e quello cui stavo assistendo mi ha inchiodato sulla sedia del piccolo ma accogliente salone dal primo all’ultimo minuto (circa due ore !!) della rappresentazione.
Non meravigliatevi di quello che dico, non ho assistito alla sterile e scontata presentazione di un libro scritto in vernacolo ma ad una vera e propria rappresentazione della vita passata da cui trarre gli stimoli giusti per quella presente e futura.
Una rappresentazione con al centro un unico attore protagonista che soltanto incidentalmente recitava la parte di Rocco Cimino e che invece avrebbe potuto calcare le tavole di palcoscenici molto più importanti per raccontare, nelle vesti di blasonati attori-registi, la vita in maniera assolutamente brillante, accattivante e coinvolgente; ed a tratti anche commovente fin quasi alle lacrime, come quando ha ricordato la prematura scomparsa della sua allieva Francesca Caporrino.
Ma la grande abilità di narrare fatti, circostanze e casualità l’ho capita soltanto alla fine quando, tra gli applausi scroscianti del folto pubblico presente, mi sono reso conto che il prof. Rocco Cimino aveva raccontato la sua vita, il suo essere prima uomo e poi docente, senza minimamente presentare il suo libro, al di là di qualche breve lettura. La sua opera letteraria, difatti, usciva ed entrava dalla rappresentazione quasi alla chetichella, tanto su quel palco c’era lui e c’erano i suoi ragazzi che ancora lo seguono e lo apprezzano. Fino al punto da dedicargli in rapida successione brani del libro, ricordi di vita vissuta, antichi detti, e soprattutto le conquiste di vita realizzate grazie ai suoi insegnamenti. Che bella e grande soddisfazione per un docente che ha fatto il prof per scelta di vita e non per convenienza strumentale ed economica.
Mi ha particolarmente colpito la sua umanità ed anche la sua umiltà quando con chiarezza disarmante ha annunciato che quella di quella sera era l’ultima rappresentazione perché è giusto, come è giusto, che ognuno si renda conto di doversi fare da parte ad un certo punto della propria vita, anche se davanti ha ancora un tratto molto lungo da percorrere. Anche perché Lui non è uno scrittore di cassetta, Lui ha semplicemente e con grande serenità raccontato la sua vita e quella degli altri ai quali è giusto lasciare un pezzo di notorietà e di rappresentatività.
La lezione di Rocco, mi permetto di chiamarlo per nome, è proprio questa: scendere dal palcoscenico per dare ad altri, più giovani, la possibilità di calpestare le sue tavole. Non tutti lo sanno fare e non tutti lo fanno perché non tutti sanno che quella scelta è una delle cose più importanti della vita; una vita vissuta nell’amore totale della famiglia.
A supportarlo, con grande capacità dialettica e riassuntiva, in questa rappresentazione gli era accanto la moglie Franca Maria Cancro (professoressa, figlia d’arte di quell’indimenticato maestro Raffaele), compagna di vita da oltre quarant’anni e madre dei suoi due figli, che ha saputo con molta eleganza preparare il pubblico presente alla travolgente performance del marito. Una donna solare, per certi versi anche gioviale e quasi umilmente alla pari con tutti pur conservando una certa austera ma affettuosa dignità di donna, di madre e di docente. Una bella coppia davvero, che ha illuminato la scena di Palazzo Marone più dei bollenti fari opportunamente accesi nonostante il gran caldo.
Lei, Franca Maria Cancro, nativa di Savoia di Lucania e cresciuta a Salerno, è rimasta sempre vicina al marito (forse anche un passettino indietro, almeno in pubblico) fin da quando incrociò da giovane studentessa lo sguardo forse irriverente ma sicuramente affascinante dell’uomo della sua vita; ed a chi le chiedeva come mai lei, ragazza di città, andasse sposa ad un teggianese rispondeva semplicemente che in quell’uomo vedeva racchiuse tutte le caratteristiche per creare una famiglia unita e duratura, ben sapendo che Lui (il futuro marito) non avrebbe mai abbandonato la sua “scorza di teggianese puro sangue” e non si sarebbe mai allontanato dalle antiche tradizioni della sua terra.
Per la cronaca va ricordato che la serata è stata ottimamente organizzata dall’Amministrazione Comunale di Monte San Giacomo che, in persona del suo sindaco arch. Raffaele Accetta, ha inteso conferire ai coniugi Cimino – Cancro la “cittadinanza benemerita” per la loro attività di insegnati presso le scuole sangiacomesi e per il loro amore nei confronti del paese, amore sostanziato dalla donazione di tremila libri appartenuti al papà della professoressa Cancro.
Sempre per la cronaca è giusto ricordare che la serata è stata condotta dalla professoressa Maria Gallo e che sul palco erano anche presenti i sindaci di Teggiano (Michele Di Candia) e di Savoia di Lucania (Rosina Ricciardi) e i due parroci di Teggiano, don Carmine Tropiano e don Giuseppe Puppo, che in un certo senso e per molti versi accompagnano la vita e l’azione di sostegno che i coniugi Cimino – Cancro cercano di portare ogni giorno in favore dell’intera comunità.