Retorica periferica

Felice Bianchini junior

(corrispondente e notista politico)

 

ROMA – “La coesione sociale è importante per il funzionamento dell’economia: la violenza urbana […] e i conflitti etnici […] creano ambienti ostili sia agli investimenti sia alla crescita. E se la coesione sociale è in grado di influire positivamente sui risultati economici, è vero anche il contrario: politiche eccessivamente austere […] danno prevedibilmente origine a disordini.

 

Scrive così J.Stiglitz nel suo “La globalizzazione e i suoi oppositori”, pubblicato nel 2002 e riedito nel 2017. La lezione che queste parole cercavano di impartire non è evidentemente stata appresa.

L’attenzione particolare che il premio Nobel riserva ai paesi in via di sviluppo, frutto del pensiero di un economista dedito allo studio dell’economia globale, è la stessa che un paese sviluppato dovrebbe dedicare alle proprie periferie. Tuttavia, accade che le periferie, invece di ricevere particolare cura, diventino un ripostiglio in cui si accumulano disagi. E, come in ogni ripostiglio, a un certo punto lo spazio finisce.

 

Casalbruciato e Torre Maura: scontro tra ultimi. Roma è una città che difficilmente si presta ad essere amministrata. Inoltre, buona parte della sua superficie è composta da zone in cui il degrado va via via aumentando. Tra accumulo di rifiuti, trasporti talvolta addirittura inesistenti (come nel caso di Torre Maura) e mancanza di servizi in generale, si fa sempre più fatica a definire una periferia capace di concedere una vita dignitosa. Sentendosi di conseguenza abbandonati dallo Stato, i cittadini vivono in un clima teso. Torre Maura e Casalbruciato sono due di queste periferie, finite sotto i riflettori per via di una protesta contro l’arrivo di un gruppo di rom.

I rom non riscuotono tanto successo tra i romani, né tra gli italiani in generale. In totale, la stima dei rom presenti sul territorio italiano è di 180mila persone (pari a poco più dello 0,3% dell’intera popolazione). Parte della popolazione rom sul territorio vive come un comune cittadino, un’altra parte si trova all’interno di campi abusivi; tra questi c’è un’ulteriore distinzione da compiere, tra chi si stanzia e chi invece è nomade. Le condizioni nei campi sono talvolta pessime, il che rende ancora più aspro il giudizio esterno. Le giovani generazioni vengono spesso private dello studio e non entrano nel circuito del lavoro, anche per via del pregiudizio culturale (come ci fa notare il Senato della Repubblica in un suo rapporto di indagine); ciò che rimane loro, dunque, è l’accattonaggio e la vita di strada. Un’altra considerazione da fare è che i campi sono sì in parte “cultura rom”, ma sono anche e soprattutto frutto di una politica portata avanti da vecchi governi, i quali hanno preferito creare dei ghetti piuttosto che tentare di integrare. Tuttavia, va sottolineato come non sia semplice l’integrazione di una parte di queste persone, visto che sono spesso loro a rifiutarla.

Il governo, in proposito, si è espresso, a mio avviso giustamente, per la chiusura dei campi, i quali, oltre che offrire un tenore di vita non degno di un paese civile – anche da un punto di vista puramente “estetico” -, sono teatro di roghi tossici, che stanno diventando, anzi sono una vera e propria piaga sociale, parte di un malato sistema di smaltimento dei rifiuti e di un mercato nero di materiali che ha coinvolto e coinvolge anche una parte dei rom. Tuttavia, la chiusura comporta la responsabilità di un ricollocamento e, come si diceva, di integrazione. Questa, come ci insegnano Torre Maura e Casalbruciato, non è semplice. Le persone hanno protestato, protestano e protesteranno, perché vivono già una carenza di servizi, e l’arrivo e la tutela di gruppi rom vengono visti come uno scavalcamento, una discriminazione per il povero italiano. Inoltre, la cattiva fama guadagnata all’interno delle stazioni metro e delle strade con furti e accattonaggio – spesso compiuti anche da minori – rende i rom pericolosi e fastidiosi per natura agli occhi di parte dell’opinione pubblica.

Ma ciò che io vedo di fronte alle immagini della protesta di Torre Maura e Casalbruciato non è semplicemente la paura, o la rabbia, né una mera disputa per chi deve ricevere prima una casa popolare, né razzismo. Ciò che vedo innanzitutto è uno scontro tra ultimi, frutto di esasperazione ed abbandono.

 

L’estremizzazione delle periferie. Da un punto di vista politico, la situazione delle periferie è tanto interessante, quanto preoccupante. Le sinistre progressiste e imborghesite, per inseguire un progresso talvolta finto, hanno abbandonato la periferia, prima habitat naturale. La politica mondiale, e nostrana in generale, ha inseguito una globalizzazione sfrenata, non accorgendosi distrattamente, o ignorando impunemente che, mentre da un lato le conquiste tecnologiche e la ricchezza aumentavano, dall’altro la distribuzione di tutto questo ne risentiva, creando veri e propri buchi socio-economici, all’interno dei quali, come facevamo notare prima, il clima diventa teso, e la visione politica spesso si estremizza, al di là del voto che viene espresso nelle urne – sempre che venga espresso.

All’interno della periferia troviamo prevalentemente, e più che in altre zone, due tipi antropologici: l’anarco-libertario, generalmente inteso come sinistra, il quale non crede nella reale convenienza di appartenere ad uno Stato, o talvolta semplicemente diffida, complice il degrado e l’assenza della politica o di una politica che lo aggrada attorno a sé, dell’esistenza stessa dello Stato, identificato con la classe dirigente – talvolta con le forze dell’ordine – e visto più come una farsa, un teatrino che va a beneficio di chi ricopre ruoli di potere. A questa sinistra si oppone generalmente una destra altrettanto estrema, autoritaria, conservatrice e fortemente identitaria, che sfocia spesso in anacronistiche riproposizioni di saluti romani, “folclore fascista”, ed altre usanze che consentono un reciproco riconoscimento e, di conseguenza, il senso di appartenenza ad un gruppo, una fazione, altrimenti più difficile.

In queste periferie hanno riscosso consenso i partiti di governo, intercettando un voto prevalentemente di protesta. Mentre i governanti lottano per tenere fede alle promesse il più possibile, o comunque per mantenere il consenso, riescono a parlare (in particolare) a quella destra periferica forze come Casa Pound e Forza Nuova, le quali riscuotono in maniera pratica il loro consenso, andando direttamente sul territorio ed entrando a contatto con le persone, cosa che le forze parlamentari in generale fanno sempre meno. Non solo: queste forze possono diventare, e sembrano esserlo già in parte, una sorta di piede di porco capace di far saltare la giunta attuale, con la caduta della quale, molto probabilmente, assisteremmo a una vittoria schiacciante del connubio FdI – Lega. A livello nazionale, in ogni caso, l’efficacia di questa politica pragmatica ancora non si nota – almeno a livello di risultati elettorali – ma alcuni analisti della politica si trovano d’accordo nel dire che, in caso di fallimento di questo governo, non è escluso che una parte più consistente dei voti della periferia possa andare a rinforzare queste destre extraparlamentari.

 

Senza riforme, la reazione violenta che è già cominciata si farà ancora più aspra e il malcontento nei confronti della globalizzazione non potrà che crescere.

 

La globalizzazione difettosa: un sistema economico frenetico, iniquo e precario. Per capire quello che sta avvenendo, non solo nelle periferie romane, ma nell’intero mondo, occorre impegnarsi ad acuire lo sguardo e a renderlo profondo, sia in termini di distanza che è in grado di raggiungere, ossia dell’ampiezza dell’orizzonte che copre, sia per quanto riguarda la profondità concettuale, preferibile ad una superficialità più semplice da adottare, ma meno efficace nel comprendere. I buchi socio-economici di cui si parlava prima, che possono essere tanto le periferie in senso stretto “nazionale”, quanto i paesi poveri in termini “globali”, sono frutto, in modo e misura diversi, del sistema economico globale. In alcuni casi non si è stati in grado di risolvere i problemi, di “recuperare” questi luoghi; in altri casi, sono stati acuiti problemi in zone instabili o addirittura, cosa più grave, sono state destabilizzate zone relativamente stabili.

I tagli subiti dal Comune di Roma, aggiunti alle amministrazioni divise tra la noncuranza e il malaffare, sono nient’altro che una riproduzione in scala di ciò che è avvenuto a livello nazionale. Dagli anni ’80 in poi, in particolare, si è andato sempre più affermando il pensiero che serva ridurre lo Stato, predicando al suo posto un’apertura cieca ai mercati internazionali e un nuovo laissez faire come principio guida. L’apice di questa cultura, toccato con l’avvento del terzo millennio, è stato seguito dalla Grande Recessione del 2007-2008, che ha lasciato danni che ancora non sono stati riparati ed altri che sembrano irreparabili. Inoltre, come già accennato, i benefici che la globalizzazione ha prodotto sono stati distribuiti in maniera iniqua, arricchendo il famoso “1%” e danneggiando, insieme con la fascia più povera, anche il ceto medio, forse quello che più sperava di poter trarre benefici dal nuovo sistema economico globale. Salvo poche eccezioni, come la Cina, all’interno della quale si è sviluppato un ceto medio prima addirittura quasi inesistente, il mondo ha subito un contraccolpo. La politica, in tutto questo, è stata complice, o è stata a guardare: ha predicato l’ineluttabilità, aggravando il sentimento di impotenza che affliggeva e affligge tutt’ora parte della popolazione; avrebbe potuto opporsi al comportamento sleale delle multinazionali, che hanno fatto di tutto per pagare tasse irrisorie, e per spostare la produzione dove avrebbero potuto meglio sfruttare il lavoro; o opporsi all’ampliamento smisurato del volume della finanza; come avrebbe potuto combattere i paradisi fiscali, ma non l’ha fatto. Il risultato è una disuguaglianza che diventa sempre più insostenibile, con l’aumento del rancore e della depressione.

Di fronte a questi risultati, era inevitabile che si iniziasse a reagire contro la globalizzazione. La frase di Stiglitz, datata 2002, si è rivelata profetica.

 

Ieri e oggi: fascismo, nazismo, comunismo e keynesismo in contrapposizione al capitalismo liberale(liberista); sovranismo e populismo contro il capitalismo finanziario globalizzato e la cultura neoliberista. È come se piovesse all’interno di una casa dal tetto bucato, allagando il pavimento, e all’interno dell’abitazione ci si dividesse tra chi se la prende con la pioggia e chi col buco. La disputa descritta fa ridere tanto quanto quella cui vuole fare indirettamente riferimento.

Una delle cose di cui l’opinione pubblica accusa la vecchia classe politica è la mancanza di coraggio, l’asservimento ai diktat esteri. Non stupisce dunque, che buona parte dell’opinione pubblica si stia schierando a favore di una figura forte e che in generale sia in cerca di tutela dell’interesse nazionale. Oltre, infatti, alle promesse con cui può essere ed è stato convinto l’elettorato, ciò che emerge è il bisogno innanzitutto di un cambiamento, e in secondo luogo di un maggiore “potere contrattuale”, o se vogliamo semplicemente di maggiore considerazione. Non hanno fondamenta né le teorie che vedono tutti gli italiani incattiviti di colpo, né tantomeno quelle ancor più insipide che vedono una stupidità generalizzata. Al di là della retorica e i mezzi con i quali ambo le parti si demonizzano e screditano a vicenda, il dibattito, o meglio lo scontro in atto è molto più profondo e complesso di quello che vogliono far credere da un lato o dall’altro i rispettivi “sminuitori” delle forze in gioco. Profondo perché ha radici storiche che vanno a toccare l’inizio dello scorso secolo e anche prima. Complesso perché si ramifica in tutti i campi ed è difficile da risolvere, trovando una soluzione che abbia dei benefici generalizzati. È giusto, sempre se con criterio, fare un salto indietro e considerare quelle che sono le radici, o anche le semplici affinità tra i contesti culturali e le idee più in generale che si sono succedute in passato – nel corso dell’ultimo secolo in particolare. Cito J.M.Keynes: “Il capitalismo non è intelligente, non è bello, non è giusto, non è virtuoso e non mantiene le promesse. In breve, non ci piace e stiamo cominciando a disprezzarlo. Ma quando ci chiediamo cosa mettere al suo posto, restiamo estremamente perplessi.” Nel 1933 JMK affermava che il capitalismo iniziava a non piacere, anche se già da più di un decennio era diventato realtà l’esperimento comunista in Russia, il quale, in ogni caso, era presente anche in Europa sotto forma di progetto politico. Quel capitalismo di cui parla Keynes, di stampo liberal-liberista, era figlio di una tradizione economica contro cui l’economista di Cambridge, dapprima sostenitore, ha impegnato un’intera vita a combattere – se vogliamo, la lotta era la stessa di Marx (ossia sostituire il capitalismo), con il quale, tuttavia, non condivideva le soluzioni.

Nello stesso anno, in Germania, Hitler prendeva il potere, dopo essere stato nominato cancelliere dal presidente Hindenburg. In Italia, già da un decennio (quindi prima della Grande Depressione) dominavano Mussolini e il suo fascismo, che era stato una fondamentale fonte di ispirazione per Hitler all’inizio della sua parabola politica.

Ma cosa lega Keynes, che fu ispiratore di una rivoluzione culturale che trasformò anche il volto degli Stati Uniti sotto Roosevelt, con i due dittatori? E poi, cosa lega quel periodo a quello attuale? Tutti e tre condividevano tanto un’avversione congiunta a comunismo e capitalismo, quanto la necessità di un intervento statale nell’economia. Ciò che distingueva il primo dai secondi era una cultura liberale, semplicemente depurata dagli influssi liberisti.

Anche all’epoca vi era una “globalizzazione” in atto, anche se meno pervasiva. Prova ne è il fatto che, analogamente alla crisi del 2007 (o Grande Recessione), la crisi del ’29 (o Grande Depressione) ebbe inizio negli USA, col crollo di Wall Street, e si propagò a macchia d’olio nel resto del mondo, complice l’interconnessione delle economie.

Oggi, il sistema economico globale ha scontentato molti più individui di quanti ne abbia fatti contenti. Se il capitalismo liberista (e imperialista) di inizio ‘900 non piaceva, non si può dire il contrario dell’attuale versione fortemente finanziaria e globalizzata. Le forze politiche che riscuotono più consenso attualmente sono quelle che cercano di trovare una via alternativa a questo sistema economico, ricevendo voti generalmente o da chi è povero e senza nulla da perdere, o da chi, anche se tutto sommato in grado di sopravvivere, è disilluso e in cerca di un’alternativa all’attuale società, insoddisfacente così com’è strutturata.

Dunque, quando un contesto socio-economico martoriato e depresso è sotto l’influenza di una cultura dominante capitalista liberista, sembra sia inevitabile qualche sconvolgimento politico.

 

Quelle che servono sono politiche per una crescita sostenibile, giusta e democratica. Questa è la ragione dello sviluppo. Lo sviluppo non è uno strumento per aiutare poche persone ad arricchirsi o per creare una manciata di inutili settori protetti da cui trae vantaggio solo un’élite ristretta; sviluppo non significa mettere Prada, Benetton, Ralph Lauren o Louis Vuitton a disposizione dei ricchi delle città per poi lasciare in miseria i poveri delle campagne. Il fatto di poter acquistare borse Gucci in un grande magazzino di Mosca non significa che il paese è passato a un’economia di mercato. Sviluppo significa trasformare le società, migliorare la vita dei poveri, dare a tutti una possibilità di successo e garantire a chiunque l’accesso ai servizi sanitari e all’istruzione.

 

“Nessuno deve essere lasciato indietro”: Simone e i suoi adulatori. Le destre extraparlamentari non hanno avuto l’onore di avere un contraddittorio “istituzionale”. Né la maggioranza, né l’opposizione si sono presentate nella periferia protestante. Ad opporsi, diventando l’idolo della Tv e dei giornali per un giorno, è stato un ragazzo di circa 16 anni, il quale ha discusso apertamente con chi sosteneva una linea dura nei confronti degli ospiti indesiderati. Il suo “nessuno deve essere lasciato indietro” è diventato lo slogan di chi voleva opporsi alla xenofobia e al razzismo. Mi preme dire, però, che la giusta battaglia per l’assenza di discriminazione e conflitti etnici non può essere efficace, né essere anche solo portata avanti, se non è accompagnata dalla lotta alle disuguaglianze sociali. Come si diceva all’inizio, la coesione sociale è condizione necessaria per un buon funzionamento dell’economia; tuttavia, se il sistema economico è iniquo e consente che si creino ampi divari e accumuli di disagi, compromettendo le concrete possibilità di una fascia della popolazione, il disordine è quasi inevitabile.

Chi appoggia Simone ed è contro i conflitti etnici non può astenersi – anzi deve privilegiare – da una altrettanto seria lotta per il corretto funzionamento del sistema economico, ossia combattere perché vi sia un’equa distribuzione della ricchezza e delle possibilità, secondo necessità e merito. È questa battaglia che è mancata alla sinistra e che è stata sposata dalla destra, rendendo ancora più profonda la frattura tra coloro che negli ultimi tempi si sono definiti di sinistra e la gente in difficoltà. Affermare che siamo tutti uguali non darà una casa a chi non ce l’ha, né darà un’alternativa concreta a chi dedica la sua vita all’illegalità. Serve combattere seriamente affinché nessuno venga lasciato indietro, di modo da restaurare un clima disteso e, con esso, un ambiente fertile per la crescita.

 

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