Aldo Bianchini
SALERNO – In redazione è pervenuta una “lettera aperta” inviata dal dr. Eppe Argentino Mileto (giornalista Rai) e diretta ai Sindaci del Cilento e del Vallo di Diano. Eppe è un amico del Vallo di Diano già da alcuni anni, da poco più di un mese è addirittura residente nel Comune di Teggiano dove, tempo fa, aveva acquistato casa. Da cittadino del Vallo di Diano e del Cilento (in senso allargato) ha quindi pieno diritto di dire la sua e di rivolgersi direttamente ai Sindaci come uomo della comunicazione e profondo conoscitore delle esigenze e delle aspettative della varie comunità valdianesi e cilentane.
In questi territori, purtroppo, vige da molti decenni l’egemonia politica e gestionale dei “soliti noti”; volti che hanno spesso offuscato la crescita e il progresso di intere popolazioni che, comunque, hanno espresso dagli anni ’70 in poi numerose entità professionali e imprenditoriali e che ora sono costrette a fare la conta drammatica dei tanti giovani che lasciano il territorio in cerca di migliore fortuna in terre lontane e sconosciute.
Per questi motivi ho ritenuto giusto dare ampia pubblicità alla lettera di Eppe Argentino Mileto con la speranza che apra un serio e sereno dibattito anche, se non soprattutto, tra i giovani valdianesi e cilentani che sembrano essere piombati nella notte del silenzio.
Eppe Argentino Mileto
Da poco più di un mese sono residente a Teggiano. Dopo aver frequentato il Vallo di Diano e il Cilento negli ultimi 5 anni, ho stabilito lì la mia nuova residenza.
Da cittadino ho titolo, ampio titolo, quindi per porre delle domande. E attendermi delle risposte.
Come professionista della comunicazione ho il dovere di porre domande. Al di là dell’aspetto professionale, ne avverto l’intima necessità. Che diventa urgenza. Non mi sfugge un alito, un respiro, un sussurro, della vita. Tantomeno dei luoghi che ne sono il ventre, di quell’alito, di quei respiri, di quei sussurri. E di quelle grida.
Scrivo ai Sindaci per due motivi: il primo è che sono espressione della collettività che li ha voluti e che rappresentano; il secondo è il più inquietante: note buone, pentagramma sbagliato. Spero con questa lettera piena di domande di chiarire alcuni aspetti. E dare così un senso alla comunicazione che ne deriva.
Ne ho conosciuti tanti, di Sindaci. Ciascuno interpreta il ruolo per quello che è: chi lo fa in modo nobile, chi con passione, chi ancora con garbo, senso delle Istituzioni, responsabilità, cultura del territorio, amore per i propri concittadini. Chi tutte queste cose insieme.
Chi ancora con intelligenza, tenacia, iniziativa, intuizione, managerialità, lungimiranza, coraggio. Chi tutte queste cose insieme;
Poi c’è chi lo fa con goffaggine, ignoranza crassa, disonestà intellettuale, opportunismo, ambizione, calcolo, protervia, carrierismo. E chi tutte queste cose insieme.
C’è però un denominatore comune in tutti questi: si chiama contraddizione. Nelle decine di iniziative e convegni ai quali ho preso parte, da un lato si evocano campanili, dall’altro si ragiona, o si tenta di ragionare in termini di macro-area. Una sorta di grande ventre in cui antropologicamente e socialmente essi si riconoscono.
Da un lato si lamentano di inevitabili processi storici, come lo spopolamento delle aree interne, dall’altro non si accoglie. Si respinge. Sono l’unico non campano ad aver stabilito residenza nel Vallo di Diano come prima casa. Gli altri sono o campani di rientro dopo aver vissuto la propria vita altrove e trovano comodo, rassicurante e tranquillizzante consumare gli anni dell’avanzata maturità nei luoghi dell’infanzia, della memoria giovanile, o pochissimi che hanno acquistato seconde o terze casette, con lo spirito suggestivo dei boschi di Hansel e Gretel.
Ma le urgenze che sollecitano le domande sono altre. Chiedetevi innanzitutto perché mai una persona dovrebbe venire a vivere lì. Chiedetevi cosa c’è che altrove non c’è. Domandatevi in cosa consista la qualità della vita. Perché queste domande le ho poste, eccome. E le risposte sono agghiaccianti: perché la vita costa due lire, perché ci conosciamo tutti, perché se hai bisogno di qualcosa tutti si fanno in quattro. Balle. Si conoscono tutti e si odiano tutti. Nessuno si fa in quattro. Al contrario, si parlano male gli uni degli altri e la vita è vero, costa due lire. Ma quale vita? Che vita è? Detesto chi pone la domanda più stupida: cosa offre quel posto o quell’altro. Perché è una domanda deresponsabilizzante. Tutti siamo chiamati ad ampliare il pacchetto d’offerta. Non si chiede alla sola politica. Ma alla collettività. Quindi che nessuno si senta deresponsabilizzato.
Il 52esimo rapporto appena pubblicato dal CENSIS delinea il ritratto di Paese in declino, in cerca di sicurezze che non trova, sempre più diviso tra un Sud che si spopola e un Centro-Nord che fa sempre più fatica a mantenere le promesse in materia di lavoro, stabilità, crescita, soprattutto futuro. Di più: gli italiani sono in preda a «una sorta di sovranismo psichico prima ancora che politico», che «talvolta assume i profili paranoici della caccia al capro espiatorio, quando la cattiveria – dopo e oltre il rancore ‒ diventa la leva cinica di un presunto riscatto e si dispiega in una conflittualità latente, individualizzata, pulviscolare».
Ma al contempo questo non sottrae la politica dall’invertire le chiavi di lettura di un pensiero, le ragioni di un’idea, la confusione di un metodo. Mi spiego: credo che manchi un progetto che risponda alla domanda delle domande, la più urgente: dove vogliamo andare? Cosa vogliamo costruire? E dove? Cosa vogliamo comunicare e perché e a chi?
La risposta alla prima domanda potrebbe essere: da nessuna parte. Non vogliamo andare da nessuna parte. Stiamo bene così. Non è vero, altrimenti i giovani resterebbero, aprirebbero bottega e non emigrerebbero. Alle altre domande nessuno mi ha risposto. Sulla comunicazione, che è quello che mi interessa e che è la ragione per la quale vi scrivo, consentitemi una piccola riflessione. Qualunque articolo, messaggio o documento prodotto e pubblicato non è mai autosufficiente, rispetto al contesto di produzione e circolazione. Questo è positivismo testuale. Sul piano ermeneutico e metodologico è insufficiente. Qualunque testo prodotto e in qualunque forma, articolo, sms, whatsapp, tweet, Facebook, anche il più teorico, viene sempre prodotto in un contesto semiotico, ha cioè per sua natura la valenza di un messaggio, che impone una serie di domande sui suoi scopi, sui “pubblici” che vengono scelti e mirati dal testo e sulle modalità e lo stile della circolazione. Prima di scrivere compio sempre un’attenta disamina di strumenti analitici e approcci metodologici che vanno dall’antropologia alla sociologia, dalla critica all’ideologia all’analisi attenta delle funzioni significanti delle metafore delle quali mi avvalgo. Ma prima di compiere questo lavoro occorre analizzare il progetto delle città. Cosa volete che diventino, affinché si comunichi qualcosa. Cosa avete immaginato, sognato, progettato per le vostre città. Vedete, l’ideologia della città, quell’insieme di complessi meccanismi politici, istituzionali, culturali, che cementano l’unità e l’identità di una polis deve, a parer mio, depotenziarsi della sua componente meccanicistica. Occorre ricondurre il dibattito allo stile e al genere dialogico fra produzione intellettuale e sistemi di potere. In quest’humus può nascere e svilupparsi una seria ideologia della città. Vi prego quindi di cercarmi quando avrete risposto a questa domanda: quale progetto? Tutto il resto, fra noi, è convivialità. Pura convivialità. Noiosa. Non ho lo spirito giusto per il tè delle cinque. Ma la passione per fare notte fonda sulle idee, per ragionarci su, per costruire, per non rassegnarsi, per non tirare a campare, per creare. Sono un mare mosso, le cui onde restituiscono non relitti, ma il futuro.
E chi meglio di uno che si chiama Argentino può cantare “Scetateve guagliun’ ” ?