Aldo Bianchini
SALERNO – La Suprema Corte di Cassazione non ha accolto il ricorso presentato dai difensori di Massimo Giuseppe Bossetti per alcuni vizi di forma e respingendo il ricorso ha, indirettamente confermato le sentenze di 1° e 2° che hanno condannato l’assassino di Yara Gambirasio alla pena dell’ergostolo. La sentenza è quindi definitiva.
Un caso clamoroso quello relativo all’uccisione ed all’occultamento del corpo della piccola Yara che tenne il Paese in una sorta di spasmodica attesa dal 26 novembre 2010 fino al 26 febbraio 2011 quando il corpo fu ritrovato in un campo incolto che era stato controllato più volte in quei tristi 90 giorni.
L’allora presunto assassino fu catturato il 16 giugno del 2014 a conclusione di indagini serrate e molto innovative per il sistema giudiziario italiano fino al punto da far dire a molti giuristi che niente sarà più come prima; in ballo ed in maniera massiccia era entrata la ricerca del dna del presunto assassino sulla base di liquido organico rinvenuto sugli slip della sfortunata Yara. Molte e durissime le contestazioni sulla validità di quelle acquisizioni fatte senza il dovuto contraddittorio, così come molte polemiche ha suscitato in seguito la non concessione, in tutti e tre i gradi di giudizio, di una superperizia sul famigerato dna. E da questa scelta, quasi incomprensibile si sono scatenate polemiche e contraddizioni a non finire.
Giustizia è stata fatta per Yara e per lo stesso Bossetti ? Difficilissimo rispondere con certezza e senza alcun dubbio; il dubbio è sempre in favore del reo e nella fattispecie di dubbi ce ne sono tantissimi a chi guarda dall’esterno, non ce ne sono stati affatto per i tanti giudici che fin qui hanno giudicato e sentenziato.
Ma la storia giudiziaria italiana è piena di casi clamorosi conclusisi con assoluzioni e/o condanne che hanno lasciato dubbi e perplessità per intere generazioni: senza scomodare il libro dei ricordi è sufficiente ricordare il clamoroso caso di Torvaianica quando sulla spiaggia di quella località il 9 aprile1953 fu trovato il corpo senza vita di Wilma Montesi; per quel delitto fu accusato, incarcerato, condannato e poi parzialmente assolto Piero Piccioni, figlio dell’allora ministro dell’interno “Attilio” potentissimo plenipotenziario della DC; ancora oggi il caso risulta irrisolto ed ignota la causa della morte della giovane.
Poi è arrivata la tv ed ai processi mediatici sembra essersi omologata anche buona parte della giustizia; lo vediamo tutti i giorni e in tutte le salse per Massimo Giuseppe Bossetti e Yara Gambirasio, per Sara Scazzi, per don Graziano e Guerrina Piscaglia, per Domenico Maurantonio il ragazzo morto precipitando dalla finestra dell’albergo, per Trifone e Teresa i due fidanzati uccisi davanti ad una palestra di Pordenone, per Veronica Panarello e Loris Andrea, per Michele Buoninconti ed Elena Ceste oppure per Antonio Logli e Roberta Ragusa, ma ce ne sarebbero tanti altri. Non c’è trasmissione, anche quelle più leggere, in cui non si parli di questi omicidi ed ogni conduttore annuncia sempre, per ogni puntata, una novità eclatante che poi si rivela una clamorosa cazzata. Le forzature vanno evitate; come ? non lo so e non spetta a me dirlo. Però vanno quantomeno disciplinate, altrimenti non si va da nessuna parte; nel senso che non si porta alcun contributo all’accertamento della verità ma si rovescia una montagna di fango sui protagonisti di queste vicende prima ancora che vengano condannati dalla giustizia in via definitiva.
Per meglio spiegare cosa può accadere e cosa è accaduto in passato vi racconto il caso di Vito Panaro, giovane macellaio di Bella (PZ) che nel 1918 fu arrestato con l’accusa di parricidio (secondo la pubblica accusa aveva ucciso il padre mozzandogli la testa con un’ascia durante uno dei tanti festini che il padre era solito organizzare con donnine allegre del luogo). La Cassazione, anche in quel caso come per Bossetti, respinse il ricorso per alcuni vizi di forma e l’ergastolo scattò per il giovane bellese. Ventidue anni dopo, quando aveva 40 anni, Panaro fu scarcerato e dichiarato innocente perché una di quelle donnine in punto di morte aveva convocato il sacerdote, il medico, il maresciallo e un avvocato del paese ed aveva reso una dichiarazione a futura memoria che scagionava pienamente il quarantenne Vito. Appena libero riprese la sua attività di macellaio, sposò una giovane donna rimasta vedova dopo pochi mesi di matrimonio e costruì una bella famiglia che ancora oggi lo ricorda con affetto.
Anche in quel caso clamoroso del 1918 tutto sembrava contro Vito Panaro che, nonostante i forti dubbi, rimase in carcere per 22 anni. Ora come allora ? Forse.
direttore: Aldo Bianchini