Con la pubblicazione di L’innominabile attuale, Roberto Calasso porta a compimento, nel presente, la ricerca culturale iniziata nel 1983 con la pubblicazione del primo di nove saggi dal titolo La rovina di Kasch.
Nel risvolto di copertina di questo primo saggio, sin da principio è scritto: La leggenda della rovina di Kasch narra di un regno africano dove il re veniva ucciso quando gli astri raggiungevano certe posizioni celesti. In quel regno arrivò un giorno uno straniero di nome Far-li-mas, dalla terra di là dal mare orientale. Raccontava storie inebrianti: i sacerdoti, ascoltandolo, dimenticarono di osservare il cielo. Con l’arrivo di Far-li-mas ebbe inizio la rovina dell’antico ordine di Kasch, fondato sul sacrificio. Ma anche il nuovo ordine, dove l’uccisione rituale del re era abolita, sarebbe andato presto in rovina. Rimasero soltanto le storie di Far-li-mas.
Ma, oltre quella leggenda, qual è il messaggio “di” Calasso, che attraversa e decodifica l’attualità? In breve: Chiunque pensi al di fuori del recinto logico-matematico sa che le categorie teologiche sono sempre vive e operanti (90), laddove semplificando il quadro possiamo ben dire che le “categorie”, che fondano il linguaggio dei post-socratici, e in primis di Aristotele, sono per Calasso quelle del Sacrificio e della Ritualità; il ché comporta, per l’autore, che “è ormai impensabile attuare, in qualsiasi forma, il sacrificio cruento” (90).
Ma di questo, come immediatamente leggerete, occorre dubitare. Innanzitutto, se non sia sacrificio cruento quell’atto di parte islamista al quale viceversa Houellebecq, con maggiore forza ed efficacia, attribuisce pienezza di significato esistenziale. Altrimenti, se così non sia, se realmente se ne sia perso definitivamente il significato originario o iniziale, alla maniera di Heidegger, e in relazione piuttosto all’esperienza esemplare dei fisici pre-socratici, e in primis Parmenide. Se sia o non sia o è (secondo l’autore), ritengo piuttosto che la questione si dis-veli proprio attraverso la rottura dello schema rituale, testimoniata dalla possibilità di pervenire alla modifica (metamorfosi) di ciò che, forse tra i più ancora, Severino chiama la “struttura originaria”.
E dunque, nell’attualità, a chi appartiene più di tutti questa irritualità, che potrebbe dirsi anche definitiva? Su questo punto, come in principio di percorso, l’autore è altrettanto chiaro e, come in passato, sin dal risvolto attuale di copertina: Turisti, terroristi, secolaristi, hacker, fondamentalisti, transumanisti, algoritmici: sono tutte tribù che abitano e agitanol’innominabile attuale. A tutti costoro, ma in definitiva ai transumanisti, Calasso imputa una separazione ovvero “un’amputazione” – come egli la chiama – “del senso del divino”, che esattamente è l’ignoto (mysterium).
Ma, posto in ogni caso l’innominabile attuale, l’interrogativo è se esista, tuttavia, per i transumanisti un modo co-er-ente (alla maniera di Godel; e, adversus Calasso (78), precisando che, in ordine alla dimostrazione di “coerenza” della matematica, secondo Nagel, l’illustre matematico austriaco non abbia mai escluso una “prova finitistica” anche se non è chiaro cosa in effetti possa rappresentare) di “abitar(lo) e agitar(lo)” e, in definitiva, di “attuare, in (qualche) forma, il sacrificio cruento”.
Un sacrificio che, a differenza tuttavia del passato, sia, e quindi è, già ora, irrituale. Il sacrificio di coloro che, nell’attualità chiamati trans–umanisti, agiscono in prospettiva senza un fine pre-costituito, condividendo che l’imprevedibilesia ed è parte del pro-getto (il “gettato” tipico della classicità greca), che prende forma e sostanza dal “caos” (e non viceversa dal “caso”, che l’autore interpreta come “la potenza, non religiosa né politica né economica né rivendicativa, che muove il terrorismo e lo rende assillante” (16)) “originario”. Simili, nel passato, ad antichi “turisti” scopritori e costruttori del “cosmo”, e in particolare quei fisici presocratici, e in primis come detto Parmenide, o anche detti “sapienti (sofoi)” dalla tradizione, nell’attualità – così come erroneamente considerati sopra tutti – scienziati.
In fondo, davvero un per-corso in cui necessita non avere timore dell’“ignoto”, al punto di – pensarsi, ma correttamente dovrebbe dirsi – proiettarsi in un ipotetico futuro e immaginarsi “disarmati” (91). Viceversa, una “condizione”– descritta anche dalla Arendt in Vita activa – simile a quella che ha già consentito l’ “uscita” dell’umanità al e da quel periodo dell’evoluzione che l’autore ritiene d’individuare forse nel Paleolitico superiore: “E’ plausibile che la secolarizzazione fosse già in corso nel Paleolitico superiore – e il processo non si è mai interrotto” (45).
Un de-stino (alla maniera di Severino, intorno a: lo stare dell’essere e l’essere dello stare medesimo) che, sedicente “transumanista”, nell’attualità condivido con il passato del genere “umano”.