La recente condanna a trent’anni di carcere per Danilo Restivo, presunto se non probabile assassino di Elisa Claps, ha portato nuovamente sul palcoscenico dell’attenzione generale il problema del “DNA” e della prova che il materiale raccolto sulla scena del delitto può costituire a carico o a favore di un indagato. Parlo, ovviamente, di verità processuale e non di altro, tenendo ben fermo il concetto che la verità processuale può essere spesso molto diversa dalla verità effettiva. Il DNA, come tutte le prove scientifiche, non è affatto infallibile, pur essendo idonea spesso ad abbreviare i percorsi della verità processuale e a ridurre di molto la scivolosa area del “ragionevole dubbio” in presenza del quale la giustizia deve risolvere i suoi problemi sempre e soltanto a favore dell’indagato. I telefilm americani del tipo “CSI” hanno incominciato a scalfire la patina di irrealtà depositata nella coscienza collettiva, insomma quello che vediamo nei telefilm difficilmente viene pari pari riproposto sulle scene dei delitti al momento del campionamento dei reperti e della loro effettiva e significativa utilizzabilità processuale. Il giudice –diceva un mio lettore- non è il perito dei periti. Mai affermazione è stata più centrata, soprattutto quando si parla della assoluta credibilità dei CTU (consulenti tecnici dell’ufficio del giudice) che non possono essere considerati, per definizione, neutri in assoluto. Al di là della non dimostrata obiettiva ed inoppugnabile veridicità ed attendibilità degli esami condotti, ancora oggi con tecniche molto diverse l’una dall’altra, sui reperti campionati sulle scene dei delitti in maniera assolutamente non omogenea e processualmente assumibili come “prova provata”. Ecco allora ritornare in discussione le indagini tradizionali ormai abbandonate da tempo e difficilmente ripristinabili per la difficile praticabilità delle stesse in quanto sostituite nella prassi quotidiana dalle “delazioni dei pentiti” o dalla “prova del DNA”. Credo siano ancora vivi nella memoria collettiva due grandi delitti che, per certi versi, sono tuttora attuali e quasi contemporanei anche se il primo risale al 1990. In entrambi i casi la prova del DNA sui reggiseni delle vittime è stata risolutiva, nel primo caso a sfavore, nel secondo a favore. Era il 7 agosto 1990 quando la giovanissima Simonetta Cesaroni venne brutalmente uccisa a colpi di coltellate nello studio in cui lavorava. Le indagini tradizionali a tutto campo portarono all’arresto ed alla scarcerazione di vari personaggi fino a pochi mesi fa quando l’ex fidanzato della vittima, Raniero Busco, sposato e con figli, è stato condannato dopo la riapertura del caso in forza della prova del DNA su un reperto ritrovato sul reggiseno della povera ragazza uccisa. Rapido balzo in avanti e si arriva alla data del 13 agosto 2007 quando Chiara Poggi viene trovata morta in casa, uccisa da numerose coltellate e martellate, nella sua villetta di Garlasco. La prova del DNA trovata sul reggiseno della ragazza portò in carcere il fidanzato Alberto Stasi, ma solo per quattro giorni, il gip lo scarcerò perché non c’erano certezze. Ora ci sarà il nuovo processo e vedremo. Ho citato soltanto questi due clamorosi casi conclusisi, al momento, con due sentenze molto diverse, per dire che nell’arco di diciassette anni, nonostante i progressi immensi della scienza e della tecnologia, nella sostanza è cambiato poco o niente. Il rischio dell’inaffidabilità della prova del DNA, ai fini della sua collocabilità in sede processuale, è ancora altissimo ed in tal senso una vecchia sentenza americana del 1993 pronunciata dalla Suprema Corte USA ammoniva tutti sui rischi del “DNA Wars”, ossia la guerra del dna. L’ultima stranezza sta nel fatto che per il delitto Cesaroni il DNA dopo venti anni avrebbe sciolto ogni ragionevole dubbio, in quello di Garlasco, invece, sebbene il DNA sia stato prelevato dopo poche ore ha innescato più di qualche ragionevole dubbio. Questa è la scienza, almeno fino ad oggi.