Ferrante Sanseverino e il Cortigiano del Nifo

di Giovanni Lovito (scrittore)
SALERNO – Sulle orme del Libro del Cortegiano del Castiglione, il Nifo, in età ormai avanzata, dava alle stampe il De re aulica, un vero e proprio trattato sull’educazione e sui costumi del  perfetto ‘uomo di corte’. Dedicata alla giovane Fausina Rhea, l’opera venne commissionata dai principi salernitani, perché anche  il loro casato, com’era avvenuto per quello urbinate, potesse trarre beneficio e giovamento dai suggerimenti dello scrittore rinascimentale:

[…]. Et quindi è avenuto, che quest’impresa non mi è stata troppo agevole, se non quanto voi Phausina la fate, aguzzando l’ingegno mio. Non vorrei già, che alcuno di quelli che leggeranno questo mio libro, si maravigliasse, che un Filosofo già vecchio di sessant’anni e quasi col capo hormai  nella sepoltura, habbia dedicato ad una donzella e sotto ’l nome di essa publicato un libro tale: […]. Non si devranno dunque punto maravigliare se io già vecchio ho dedicato questo mio libretto ad una giovanetta honorata et famosa per tante lodi: perché io l’ho a lei dedicato non per far prova dell’ingegno mio, ne meno per mostrare quello che io valessi mai, più tosto per farlo coi raggi del suo lume più chiaro e più acuto et per alzarlo fin alle stelle. […]. Hannomi costretto oltre acciò a scriver quanto ho scritto gl’Illustrissimi Prencipi di Salerno Ferdinando Sanseverino et Isabella Villamarina, a’ quali tutta questa mia vita con istrettissimo nodo d’obligo è legata: percioche essendo eglino amendue religiosissimi, et crudelissimi nemici di tutti i vitii, disiderano sommamente d’intender le cose della corte, et quali sian quelle che abbracciar si deono, et come usare, affine che la corte loro non havendosene contezza non si riempiesse di malvagi costumi» (Il Cortigiano del Sessa, a c. di A. BELLONI, Genova 1560,  pp. 11-12).

I passi estrapolati dalla prefazione comprovano la permanenza del Nifo, in età ormai avanzata, nella città di Salerno, dove, poco prima di morire, scrisse e indirizzò il suo ‘Cortigiano’ ai principi Sanseverino.
Pur nella loro difformità  stilistica e strutturale  (basti pensare che alla discussione e ai dialoghi del palazzo di Guidubaldo di Montefeltro si contrappone il monologo del Cortigiano del Sessa), i due trattati, tuttavia, possiedono alcuni punti o temi in comune, come quelli riguardanti le «facezie» e, soprattutto, la «grazia» (affabilità), «nucleo concettuale più profondo» se non «elemento dinamico» di entrambi gli scritti.

Analizzando la parola ‘Curtis’, il filosofo campano ne ricercava l’etimologia. Prendeva le mosse dai termini ‘Aula’ (greco) e ‘Atrio’ (latino), da cui la voce ‘palazzo’, designante, nel secolo XVI, la residenza del princeps. Successivamente si chiedeva quali fossero le azioni derivanti dalla vera virtus, mettendo in evidenza quanto era stato scritto a riguardo da Terenzio. Circa il comportamento e l’indole dell’uomo di corte, il Nifo, sulle orme di Democrito, asseriva che «l’adulare et il compiacere sono vitii d’animo misero et debole: d’huomo bugiardo, poltrone, vile, uso di servire, vano, da poco et abietto» (Il Cortigiano cit., p. 16). Ancora dell’adulazione tratta il capitolo quinto, là dove lo studioso, chiedendosi se mai l’adulatore potesse essere accolto presso la corte principesca, dimostrava in quale considerazione avevano tenuto la piaggeria e il servilismo alcuni sovrani e filosofi antichi, tra cui Agesilao, Dario, Filippo il Macedone e Aristotele:

«I re grandissimi discacciarono totalmente da loro gli adulatori: perché Agesilao, re de’ Lacedemoni, ordinò una legge, che disponeva che si dovessero perseguitar gli adulatori non altramente, che coloro i quali cercano di macchinare inganni contra la propria vita. Et appresso Dario Re di Persia per publica diliberazione ordinò che fosse punito della pena della morte Timogara, il quale in tutte le cose gli aveva sempre compiaciuto. È ben vero che si son trovati di altri huomini, e di non picciola auttorità, i quali non solamente non li hanno discacciati, ma hanno etiandio dato loro degli uffici nella corte: come fe’ Filippo padre d’Alessandro Macedone verso Clisopho: esso Alessandro verso Mecisia: Dionigi Siracusano verso Charisopho: et molti altri Re appresso per sapienza et per bontà grandi et famosi, verso molti altri. Né fecero ciò senza proposito, percioché niuno vi ha in vero che possa essere veramente Cortigiano, che non si mostri grato et giocondo al suo prencipe. Hora, che l’adulatore sia grato al prencipe et da esso riputato giocondo, l’ha dimostrato nella sua Rethorica Aristotele, […].».

Il Castiglione, che con la sua opera intese presentare una descrizione della vita di corte a Urbino «improntata a un senso di aristocrazia», aveva scritto: «Di questi cortegiani, oggidì, trovarannosi assai, perché mi pare che in poche parole mi abbiate dipinto un nobile adulatore. […]. Voi vi ingannate assai – rispose messer Federico – perché gli adulatori non amano i signori, né gli amici, il che io vi dico che voglio che sia principalmente nel nostro cortegiano;» [Il testo si cita secondo l’edizione A. QUONDAM – N. LONGO (a c. di), Il libro del Cortegiano, Garzanti, Milano 1998, p. 144; Il Cortegiano del Conte Baldessar Castiglione novamente stampato et revisto, Venezia 1552].
Ritenendo l’adulazione un elemento significativo della vita di corte, il Nifo citava ancora una volta lo Stagirita, il quale aveva educato Callistene, cortigiano di Alessandro Magno, affinché «non parlasse mai con Alessandro, se non quando e’ v’era chiamato: et che qualhora e’ gli parlasse, non gli parlasse se non cose gratissime et giocondissime: […]» (Il Cortigiano del Sessa cit.,  p. 19). Tentando, quindi, un’analisi particolareggiata degli uomini di corte, il filosofo campano menzionava due categorie specifiche, gli histrioni e i buffoni; dopo aver ricordato i seguaci di Ferdinando il Cattolico, Carlo V e Francesco I, definiva cortigiani (distinguendoli, in tal modo, dai semplici compagni di palazzo) soprattutto coloro «che arrecano diletto al Prencipe loro solamente nella Corte»:

«Percioché come noi intendiamo di voler dire più avanti, quelle cose sono cortigiane le quali abbracciano di sorte quelle delle comedie, et delle buffonerie, che siano acconcie alla corte del prencipe: dove se elleno da ciò si discostano, allhora semplicemene da commedie, et da buffonerie debbon’essere stimate: si come avviene che ogn’hora che si ha rispetto a’ figliuoli, un huomo s’acquista il nome di padre: dove ogn’hora che si levano via i figliuoli, et che non si ha ad essi rispetto, ha solamente il nome d’huomo» (Ibid., p. 21).

Contrastanti rispetto a  tali opinioni sembrano essere, invece, le considerazioni espresse da Platone e Aristotele, inclini, questi ultimi, a biasimare e contestare duramente i ‘buffoni’, il cui comportamento ridicolo, secondo lo Stagirita, sembra discostarsi nettamente dalla virtus e da ogni forma di civiltà. Essendo, infatti, la virtù l’elemento cardine su cui fondare e incentrare la vita e le attività curtensi, ai filosofi greci sembrò logico allontanare definitivamente gli istrioni e gli adulatori  dai principati e, quindi, dalle repubbliche.
Degno di menzione è il capitolo dedicato all’otium dei principi. Un ozio che non è sinonimo di «gioco», tanto meno può essere paragonato al «dolce dormire»; esso, piuttosto, dovrebbe essere impiegato per l’attuazione di quattro attività fondamentali: le lettere, la pittura, l’esercizio del corpo e la musica. Da qui la massima Aristotelica, ripresa dal Nifo, per cui l’ozio senza le lettere e la cultura «è morte e sepoltura d’un huomo vivo» (ibid., p. 25). Una tematica, questa, già affrontata dal Castiglione nei capitoli in cui sottolineava, tra l’altro, la differenza sostanziale vigente tra Italiani e  Francesi: i primi inclini allo studio e alle ‘lettere’, i secondi, invece, sempre più abili «nel maneggiare l’arme» e, quindi, avvezzi all’arte della guerra:

«Ma, oltre alla bontà, il vero e principal ornamento dell’animo in ciascuno penso io che siano le lettere, benché i Franzesi solamente conoscano la nobiltà delle arme e tutto il resto nulla estimino; di modo che non solamente non apprezzano le lettere, ma le aborriscono, e tutti i litterati tengon per vilissimi omini; (I– XLII); […]; e ricominciando il conte «Signori» disse «avete a sapere ch’io non mi contento del cortegiano s’egli non è ancor musico e se, oltre allo intendere ed esser sicuro a libro, non sa di varii istrumenti; perché, se ben pensiamo, niuno riposo de fatiche e medicina d’animi infermi rtrovar si po più onesta e laudevole nell’ocio, che questa; (I – XLVII) [A. QUONDAM – N. LONGO (a c. di), Il libro del Cortegiano cit., pp. 90; 99].

Come esempi fondamentali il Sessano citava Scipione il Maggiore che «rivoltava tutto l’ocio che egli aveva allo studio delle lettere»; ricordava, inoltre, Catone, Serse, Filippo, Alessandro e gli imperatori romani «istrutti dalla militare disciplina et dalle lettere altresì et in amendue senza differenza valenti». Seguono gli interessanti capitoli dedicati ai «ragionamenti amorosi» del cortigiano con le «donzelle» e, soprattutto, quelli dedicati al ‘riso’, alla nobiltà, alla bellezza e alla «gratia» (affabilità) dell’uomo di corte. Le parti concernenti le facezie, le «buffonerie» e le «burle», elementi strettamente correlati e subordinati alla virtus cortigiana, chiudono il primo libro del trattato rinascimentale:

«Ecco dunque, che per le cose da noi dette, chiara e manifesta cosa è che due sono le parti del Cortigiano, l’affabilità e l’esser faceto. E ben vero che quelle dell’huomo che segue le Corti son quattro, cioè l’esser faceto, buffone, affabile e adulatore. Perché un che vada seguitando le Corti, sempre bisogna che si truovi queste quattro: dove basta che si truovi quelle due solamente il Cortigiano ben creato e costumato, e che non può esser senza virtù […].».

Pochi capitoli sulla «donna cortigiana» (tematica sviluppata dal Castiglione nel terzo libro) e sulla sua indifferenza nei confronti di ogni forma di facezia o rozzezza, se non alcuni passi riguardanti l’affabilità delle cortigiane e, in modo particolare, la gentilezza e il ‘decoro’ dell’amata Fausina chiudono il trattato rinascimentale indirizzato ai principi di Salerno:

«Per questa cagion dunque si dee attribuire alle donne qualche parte di quelle virtù che si concedono agli uomini che son detti cortigiani. Percioché una parte della Corte è della moglie del Prencipe, alla quale si debbono attribuire le cortigiane et le damigelle et le compagne di palazzo. […]. È ben vero questo che poi che la virtù loro non può essere l’esser faceto, ne seguita che la virtù cortigiana delle donne sia l’affabilità: gli estremi della quale (come habbiamo già detto avanti) son l’adulatione et l’esser rozze et villane».

Non è questo – ci sembra lo si debba dire – il contesto in cui trattare interamente e approfonditamente dello scritto rinascimentale. Va detto, tuttavia, che l’opera del Nifo ben s’inserisce nel contesto generale degli studi sulla ‘vita di corte’ nel secolo XVI. Una corte che, in quanto territorio privilegiato, a Salerno, come a Urbino, a Mantova o a Ferrara, diventava il cuore pulsante della vita civile, sociale e culturale di un popolo alla ricerca della sua vera identità nazionale. Certo, come evidenziato anche dal Machiavelli nel settimo libro dell’Arte della Guerra, sottoposta alle mire espansionistiche di altri Stati  e sovrani europei l’Italia, per l’impreparazione e l’inesperienza militare e politica dei suoi principi, continuava a mettere a repentaglio la sua indipendenza; va da sé, tuttavia, che nel primato della sua civiltà avrebbe comunque serbato una certa autonomia rispetto agli stranieri, avrebbe riunito le popolazioni europee sotto il nome di ‘barbari’ e, discendente e ‘figlia’ di Roma, avrebbe sottomesso culturalmente e giuridicamente le nazioni del mondo. Il lavoro del Nifo, pertanto, pur nella sua  esiguità rispetto allo scritto di Baldassarre Castiglione, rappresenta, con i suoi valori umani, politici e civili, un vero e proprio patrimonio «trasmesso come eterno all’umana civiltà». Non solo. Esso diventa l’elemento emblematico di un’alacre e fervida attività ‘curtense’ che nelle lettere e nella cultura in genere, grazie al mecenatismo e alla munificenza di un principe italiano, Ferrante Sanseverino, ritrovò il suo elemento fondamentale.
Il trattato venne ultimato il 24 aprile 1534, come dimostra il passo seguente:

«Percioché Dio ottimo et grandissimo giudicando che quanto si può dare agli uomini mentre vivono questa vita mortale, non è premio bastevole, fa partecipi della sempiterna et beatissima vita quelle fanciulle che si serberanno nell’amore inviolabilmente la pudicitia et l’honor loro, accioché insieme con esso si godano la vita felicissima et eterna. Et quanto habbiam ragionato fino a qui d’intorno alla materia del Cortigiano intendiamo, che per ora debba bastare. In Salernum à XXIIII d’Aprile M.D.XXXIIII».

Ad immortalare la figura e l’opera del filosofo rinascimentale, restano alcuni epitaffi che qui pubblichiamo:

Ad Augustinum Niphum
Heus tu qui retegis sinus retortos,
Maeandrios, labyrinthios acervos
Chrysippi, sapis atticos, et hortos,
Et nil non bone polliceris, astra
Dum censes radio, futura volvens.

Tecum benigne a Diis agitur Niphe,
Dulcis recessus quem patriae colas.

Augustini Niphi Philosophi
Dum lapidi titulum maerens Galeacius addit
Et tristi curat funera cum gemitu,
Se quis honos tumuli: non hoc tibi, Niphe, Supremum
Sed Patriae et misero stat mihi munus, ait.
[…] vivis meliore tui tu parte. Levamen
Nos luctus mediis quaerimus in lacrimis
.

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