Aldo Bianchini
SALERNO – “Che la storia non si ripeta, è un grande alibi per tutti. Che possa ripetersi, anche” (frase accredita a massimo Cheli). E’ vero, l’ineluttabilità della ripetizione della storia è un grande alibi per tutti. Ma prima di approfondire l’argomento di oggi è bene ricordare un’altra massima, questa è di Abraham Abe Rosenthal (già direttore del New York Rimes): “”Noi giornalisti non siamo preti o suore, ma abbiamo del valori etici: e questi sono dettati soprattutto dal rispetto di se stessi e dalla professione. Il nostro ruolo è far si che altri non abusino del potere””. Condivido in pieno, condivido fino al punto che nei vari decenni di giornalismo ho cercato sempre (anche se a volte non ci sono riuscito) di fare mia la massima del direttore del giornale più prestigioso del mondo; non mi sono mai piegato al potere e, soprattutto, non mi sono mai schierato decisamente in favore di questo o di quell’uomo di potere. Naturalmente gli uomini di potere sono tanti e, seppure appartenenti a poche categorie sociali (politici, magistrati, avvocati – solo per citare quelli che oggi ci interessano), nei loro obiettivi c’è sempre e comunque la mania del controllo della libertà di stampa che può avvenire in modi e circostanze completamente diverse tra loro e con la veste apparente del rapporto amichevole per mascherare abilmente il controllo delle notizie da far pubblicare.
Sono rimasto sinceramente di stucco quando ho saputo che la mattina del 3 aprile scorso, durante la perquisizione in casa di Pasquale Aliberti e di Monica Paolino, sono arrivati sul posto i giornalisti; e non mi si venga a dire che ognuno si trovava lì sul posto per caso. Di casuale in queste vicende non c’è mai niente: dico questo non perché io non ero stato chiamato, io non sono stato mai chiamato perché non consento a nessuno di chiamarmi perchè dall’inizio ho fatto una scelta diversa privilegiando l’approfondimento alla magra notizia.
Fortunatamente sul posto sono arrivati a perquisizione già iniziata e non era un solo giornalista, altrimenti si sarebbe ripetuta la bruttissima vicenda accaduta nel 1992 quando un giornalista molto noto bussò alla stanza del sindaco Vincenzo Giordano per chiedere se il pm Michelangelo Russo era già arrivato. Allucinante !!, tanto allucinante che il compianto Giordano portò in giunta e poi in consiglio l’accaduto e deliberò che da quel momento ogni documento del Comune venisse inviato direttamente alla magistratura. Sono passati 25 anni da quel momento e nulla è cambiato; anzi se possibile si è aggravata perché adesso non è un solo giornalista ad essere stato avvertito della perquisizione che dovrebbe essere uno degli elementi portanti di un’inchiesta e non la proiezione esterna e mediatica della stessa.
Per come conosco il pm Vincenzo Montemurro escludo nella maniera più assoluta che possa aver chiamato i giornalisti, anche perché lui non c’era in casa degli Aliberti con i nove investigatori; non lo dico per timore o per piaggeria ma solo per convinzione personale; non mi permetto di azzardare ipotesi su chi possa aver avvertito la stampa anche perché non è questo il problema che è e rimane tutto giornalistico. Quando si corre alla chiamata ci si mette già in una precondizione di sudditanza almeno psicologica rispetto al potere che, come detto, è rappresentato dai giudici, dalle forze dell’ordine, dagli avvocati e dai politici (per rimanere nel nostro ambito). Una sudditanza che se ripetuta nel tempo e per altre inchieste produce un effetto devastante e deleterio sul nostro ruolo che è quello di far sì che altri non abusino del potere.
Con questo non voglio minimamente condannare ma neppure assolvere nessuna delle parti in causa; io parlo da giornalista ai tanti altri giornalisti e non lo faccio salendo sul pulpito ma tenendo ben saldi i piedi per terra. Se ognuno di noi riuscisse ad attuare, anche in parte, la lezione del direttore del New York Times ne guadagneremmo anche in rispetto da parte degli stessi uomini di potere e potremmo con maggiore sicurezza recitare la nostra parte. Capisco benissimo che l’esigenza della notizia di cronaca, per tanti giornali, è vitale ma cerchiamo almeno di qualificare al meglio le nostre professionalità per ottenere, forse, anche di più. Un noto magistrato della Procura di Salerno più di una volta mi ha detto che ogni mattina legge prima questo giornale e poi gli altri; tanto sugli altri sa già cosa trova. E questo non è, per tutti noi, molto qualificante sul piano strettamente professionale.
Ma adesso cerco di analizzare la notizia della nuova perquisizione in casa degli Aliberti, una perquisizione che per molti versi lascia l’amaro in bocca e la sensazione di non essere neppure liberi di esprimere il nostro pensiero attraverso i social che oggi sono diventati il vero canale di comunicazione che sta soppiantando soprattutto i giornali di carta stampata. Vengo al sodo dell’accaduto; i social sono sicuramente fasulli e squilibrati e, quindi, da porre sotto controllo; pur tuttavia il controllo non può essere lasciato al libero arbitrio di chi deve condurre delle indagini. Difatti il pm Montemurro rendendosi conto della enormità dell’azione condotta, da ottimo interprete delle leggi, si è ben tutelato, non è andato allo scontro frontale né con il social e né con l’utilizzatore, ed ha messo spiccatamente in rilievo nel suo decreto di perquisizione locale e personale l’aspetto più importante che attiene la libertà di ognuno di noi fino a che non diventiamo portatori di una sentenza di condanna passata in giudicato (com’è attualmente la posizione degli Aliberti); e riferendosi all’atto materiale della perquisizione ha scritto: “… volta ad acquisire il profilo face book … sia nella sua parte pubblica che in quella privata avendo cura di acquisire anche le c.d. conversazioni private e/o messaggistica privata con le idonee modalità dando avviso all’utilizzatore del profilo in parola che pur avendo facoltà d’uso illimitata, per i posto ed i messaggi futuri, gli è fatto espresso divieto di manomettere ovvero di cancellare o modificare quanto acquisito in sede di esecuzione del provvedimento de quo”.
Non c’è che dire, siamo di fronte ad un provvedimento da scuola giuridica; ma siamo di fronte anche ad un provvedimento che radicalizza troppo lo scontro fino a renderlo quasi paradossale sull’onda di un “fumus persecutionis” in danno e/o in favore degli stessi Aliberti e verosimilmente in danno di tutti i giornalisti che in questo periodo hanno avuto l’occasione di messaggiare con Pasquale Aliberti (ed io sono tra questi !!) e con il grosso rischio, da parte della Procura, di far passare il falso messaggio di voler limitare la libertà di stampa, nel senso che le inchieste o si fanno in maniera completa o non si fanno.
Perché ? perché è giunto il momento di parlarci con molta chiarezza; per fare le inchieste, o meglio questa inchiesta, in maniera completa e corretta, adesso gli inquirenti dovranno acquisire agli atti tutti i messaggi scritti pro e contro Aliberti andando a prelevare i telefonini anche di chi non ha chattato con Aliberti ma lo ha fatto semmai con qualche soggetto che passa soltanto le notizie in danno di Aliberti; il mio telefonino e il mio computer sono già a disposizione degli inquirenti a patto che tutti i telefonini vengano sottoposti a rigidi controlli per capire se il caso “Sarastra” (come lo hanno denominato gli investigatori) nasce da uno scontro politico piuttosto che da un’associazione politico-camorristica.
Solo così si potrà ottenere un risultato più completo e, sempre per amore della giustizia, si eviterà di comprimere la libertà di parola e di stampa. I chattatori, non li devo scoprire o indicare io, sarà sufficiente leggere gli articoli dei giornali per avere il quadro completo della situazione. In caso contrario la difesa di Aliberti avrà via libera nel tentativo legittimo di abbattere un’inchiesta che probabilmente nella sua essenza non è né ingiusta e né fuorviante.