«Era allora principe di Salerno il ventiduenne Ferrante, cresciuto nel fasto della Corte spagnola, discepolo di Pomponio Gaurico, per il quale ebbe sempre particolare predilezione, ed avido di gloria e di popolarità, come ce lo descrivono tutti gli storici. A Salerno ebbe splendida corte del tutto degna del maggior signore del regno, già in fama di mecenate munifico e di elegante cultore di lettere e di filosofia. Ivi egli riunì di volta in volta uomini di vasto sapere, rinomati poeti, accortissimi cortigiani, ed in compagnia di essi trovava modo di appagare la sua curiosità […]; tali furono i fratelli Ludovico e Vincenzo Martelli, Scipione Capece, Matteo Macigni, Bernardo Tasso, che come suo segretario condivise col principe le ore liete e quelle tristi, Agostino Nifo, Luca e Pomponio Gaurico e altri minori» (cfr. L. CASSESE, Agostino Nifo a Salerno, in «Rassegna Storica Salernitana», anno XIX [1958], pp. 9-10). In questo modo, diversi anni fa, Leopoldo Cassese metteva in luce (dopo l’importante ed esaustivo lavoro di ricerca iniziato dal prof. Carlo Carucci) il grande fervore culturale e intellettuale che aveva caratterizzato la città di Salerno nel Rinascimento. Tra i vari scrittori citati dallo studioso di Atripalda si distingue, oltre al Tasso, il filosofo e storico meridionale Agostino Nifo (Sessa Aurunca 1473 – Salerno 1538 [1545?]), il quale, sulle orme del Salutati e soprattutto del Machiavelli, nei primi anni del secolo XVI aveva dato inizio alla stesura di tre importanti trattati dal contenuto
storico-politico: il De Principe (1521), il De regnandi peritia (1522) dedicato a Carlo V e il De rege et tyranno (1526) indirizzato al principe di Salerno Ferrante Sanseverino. Un ultimo saggio, De re aulica, trattava «dell’arte di star bene in Corte».
Data la profonda conformità stilistica e testuale con il Principe, il De regnandi è stato da sempre motivo di discussione tra gli studiosi «per mostrare da qual parte stia il plagio». Pasquale Villari definì il trattato «un’imitazione, anzi una cattiva traduzione latina dell’opera machiavelliana», asserendo, quindi, che il Nifo «pretendeva d’aver così compiuto, anzi corretto lo scritto del Machiavelli, di cui mostrava invece di non aver capito né il significato né il valore». Se il Tommasini non volle parlare di un vero e proprio plagio, ritenendo, invece, che lo stesso Machiavelli «se ne compiacque forse, quantunque non amasse quel gergo scolastico», Giuliano Procacci ha affrontato la questione considerandola nell’ottica della fortuna del Segretario fiorentino nel secolo XVI. Il Badaloni considerò lo scritto storico-politico del Nifo quale opera culturale utile ad istruire la nobiltà meridionale e, in modo particolare, il principe virtuoso sulla «tecnica fondamentale dell’arte di governo», mentre la Cosentino ha ritenuto che l’eventuale plagio potrebbe rifarsi a un preciso genere letterario che conobbe una sua particolare fioritura nella seconda metà del Quattrocento (cfr. P. COSENTINO, Un plagio del Principe: il De regnandi peritia di Agostino Nifo, in Furto e plagio nella letteratura del Classicismo, a c. di R. Gigliucci, Roma 1998, p. 139). Rilevato, poi, che il Sessano era venuto in possesso, fra il ’19 e il ’22, del manoscritto del Principe, la studiosa non ha escluso l’ipotesi per cui possa essere stato proprio il Segretario a consegnarglielo, sicché il filosofo non esitò a riportarne gran parte all’interno del suo nuovo trattato. Tuttavia, poiché la struttura generale dell’opera machiavelliana gli sembrò priva di un ordine preciso, il Nifo la rimaneggiò e riordinò «secondo il metodo tradizionale», valutando attentamente le principali opere politiche di Aristotele; si preoccupò, inoltre, di tradurre in latino diversi passi del trattato «senza premurarsi di mascherare la fonte diretta o, almeno, di occultare il furto perpetrato ai danni di un testo contemporaneo non ancora dato alle stampe» (ibid., pp. 142-143).
Dopo aver esaminato le varie forme di governo, il Nifo distingue i principati in antichi (o ereditari) e nuovi «in tutto o in parte», mentre un altro richiamo a Machiavelli è evidente allorché tratta del binomio virtus/fortuna e dell’importanza che le stesse assumono per l’affermazione sociale e politica del sovrano. Nell’incipit del Principe si legge: «Tutti gli stati, tutti e’ dominii che hanno avuto e hanno imperio sopra gli uomini, sono stati e sono o repubbliche o principati […]»; il Nifo, con un riferimento preciso ad Aristotele e Platone, asseriva: «Dominationem eam, qua homo homini imperitat, summi philosophi Plato atque Aristoteles ita [………]unt ut altera respublica, altera unius principatus diceretur» [La forma di governo, con la quale l’uomo esercita il comando sull’uomo, i sommi filosofi Platone e Aristotele indicarono in tal modo che l’una fosse definita Repubblica, l’altra signoria di uno solo]. Trattando della differenza fra re e tiranno, inoltre, lo studioso campano rivalutava alcuni importanti personaggi della storia, come Cesare Borgia, Agatocle e Oliverotto da Fermo, affinché gli stessi offrissero lo spunto per una condanna decisa dell’azione politica di quei principi che erano giunti al potere attraverso vie illegali e poco legittime.
Nell’opera si discute, ancora, dei vari mezzi con cui è possibile ottenere l’egemonia politica per poi mantenerla all’interno del principato, vale a dire la frode, la fazione, la sedizione, il favore dei cittadini, l’elezione e l’eredità, mentre, sempre sulle orme del Machiavelli, diversi sono gli esempi estrapolati dalla storia antica e recente. A proposito di Francesco Sforza e Cesare Borgia, nel capitolo VII del Principe si legge: «Io voglio all’uno e all’altro di questi modi detti, circa il diventare principe per virtù o per fortuna, addurre dua esempli stati ne’ dì della memoria nostra: e questi sono Francesco Sforza e Cesare Borgia. Francesco, per li debiti mezzi e con una grande sua virtù, di privato diventò duca di Milano; e quello che con mille affanni aveva acquistato, con poca fatica mantenne. Dall’altra parte Cesare Borgia, chiamato dal vulgo duca Valentino, acquistò lo Stato con la fortuna del padre, e con quella lo perdè; […]». L’esempio di Agatocle accomuna, ancora, i due trattati. Se il Segretario fiorentino aveva scritto che «Agatocle siciliano, non solo di privata, ma di infima e abietta fortuna, divenne re di Siracusa» e che «nato d’uno figulo, tenne sempre, per li gradi della sua età, vita scellerata […]», il Nifo, a sua volta, annotava: «Hic enim per suae aetatis gradus semper scelerate vixit […]». Federico Chabod sostenne che la capacità di mantenere l’egemonia per Machiavelli variava «a seconda della natura dello Stato, ch’è strettamente connesso con il modo di formazione», sicché «altro è il sistema adatto per un Luigi XII, altro quello di Cesare Borgia, altro quello di Agatocle».
Il discorso del Sessano sulle compagnie di ventura trova un ulteriore punto di riferimento nello storico fiorentino: «Quod autem mercenarii milites interdum obfuerint testes sunt Carthaginenses, qui primo bello
cum Romanis finito, licet ipsi eorum duces Carthaginenses essent, a mercenariis tamen militibus fuerunt oppressi. […]» [Sono testimoni del fatto che i soldati mercenari talvolta possano essere stati d’ostacolo i Cartaginesi, i quali, a conclusione della prima guerra contro i Romani, benché i loro stessi comandanti fossero cartaginesi, furono tuttavia sopraffatti dalle milizie mercenarie]; Machiavelli aveva scritto: «Delle armi mercenarie antiche in exemplis sono e’ Cartaginesi; li quali furono per essere oppressi da’ loro soldati mercenarii, finita la prima guerra con li Romani, ancora che e’ Cartaginesi avessino per capi loro proprii cittadini. […]» (Princ., XII-5). Il Nifo passava in rassegna le cause fondamentali che avevano portato alla formazione delle milizie mercenarie e tra le stesse citava il tramonto della potenza dell’Impero e la consequenziale affermazione dell’egemonia papale; dopo aver dimostrato, inoltre, la sua diffidenza per gli eserciti allogeni, asseriva che «meglio varrebbe per un principe il perdere con le milizie proprie che vincere con gli ausiliari». Preferì, infine, un esercito mediocre affidato a un grande capitano, piuttosto che un esercito forte e valoroso guidato da un condottiero alquanto mediocre. Discussi, successivamente, l’importanza che per il principe assume la guerra e il concetto del «divide et impera», lo studioso, cercando di integrare il discorso iniziato con il De regnandi, preparava la stesura del De rege et tyranno, trattato storico-politico completato nel 1526 e dedicato a Ferrante Sanseverino. Lo scrittore ‘salernitano’ iniziava a considerare le arti tiranniche con le quali diversi principi riuscirono a conservare intatto il proprio potere. Successivamente distingueva coloro che erano diventati capi di governo grazie alla fortuna da quelli che, invece, avevano ottenuto il potere o con il sostegno dei nobili o, viceversa, con quello del popolo, rilevando come la potenza e l’autorità delle classi più agiate fossero di gran lunga più solide di quelle popolari, poiché «a contentare il popolo ci vuole assai meno che a contentare i grandi». La Cosentino ha scritto: «[…] Nell’ultima parte del trattato il Nifo si preoccupa di redigere una sua autonoma conclusione, anticipando la tematica di quello che sarà il suo ultimo lavoro sull’argomento, il De rege et tyranno. L’antinomia fra i due poteri viene risolta in favore di una sovranità legittimata da un’elezione o da una successione ereditaria: […] il Nifo conclude la sua dissertazione modulando le ultime pagine sugli scritti di Platone, Aristotele, Cicerone, costantemente evocate come supreme ed insuperate autorità».
L’influenza platonica e plutarchea è evidente allorquando il Sessano inizia a discutere dell’interazione o collaborazione, all’interno dello Stato, fra il principe inerudito e il filosofo. Nel De regnandi peritia, come nel De rege, gli esempi sono diversi e ciò è stato confermato ancora una volta dalla Cosentino: «Altra dichiarata influenza che accomuna i trattati umanistici all’operetta del Nifo è quella platonica: nel De regnandi, infatti, si fa diretta allusione alla teoria secondo la quale i sovrani devono valersi dell’appoggio dei saggi. E’ quanto il filosofo afferma nel cap. XV del IV libro […]». Giovanni Pontano, nel trattato dedicato al duca di Calabria, non esitò a far rilevare al principe l’importanza che l’opera dei filosofi assume per una corretta e scrupolosa amministrazione del principato, mentre il Santoro ritenne che lo scritto politico dell’umanista napoletano, collocandosi nel solco di una tradizione letteraria rivitalizzata nella cultura umanistica (lo speculum principis) e redatto sulla base dei princìpi etici e storico-filosofici propri del mondo classico, aveva segnato «un fondamentale tentativo di teorizzazione del ritratto ideale del principe».
E’ difficile, per concludere, esprimere un giudizio esaustivo e completo sulla figura di uno scrittore cinquecentesco che è passato alla storia «più come cortigiano che come scienziato» e, soprattutto, come «plagiario di opere altrui». Ciò che è certo, tuttavia, è che il Nifo ben s’inserisce nel contesto generale della storia rinascimentale, in quanto fautore di quello sviluppo culturale che, sulle orme delle dottrine
storico-filosofiche diffuse in Italia, contrassegnò profondamente lo Studium e la società della civitas campana. Quanto esposto trova la sua conferma nel fatto che la consuetudine, propria del tempo, di accostarsi a Machiavelli per meglio intenderlo e commentarlo rappresentò l’unico mezzo attraverso il quale il pensiero politico del Segretario fiorentino poté circolare nella cultura del Rinascimento e un primo modo di assimilarne la lezione di realismo e naturalismo. Un realismo ravvisabile, ulteriormente, nella parte conclusiva del Principe (XXVI,7) , là dove lo ‘storico’ rinascimentale, nell’esortare Lorenzo II e l’intera casa medicea a liberare l’Italia dai barbari, vagheggiando con vivo sentimento nazionale e patriottico la formazione di uno Stato unitario, asseriva: «A ognun puzza questo barbaro dominio! Pigli, adunque, la illustre Casa Vostra questo assunto, […]; acciò che, sotto la sua insegna, e questa patria ne sia nobilitata e, sotto li sua auspizii, si verifichi quel detto del Petrarca:
Vertù contra furore
Prenderà l’arme, e fia ’l combatter corto:
Ché l’antiquo valore
Ne l’italici cor non è ancor morto.
Tutto ciò alla città di Salerno e al suo principe ‘illuminato’, Ferrante Sanseverino, grazie agli scritti
storico-politici del Nifo non passò sicuramente inosservato.