SALERNO – Tanto tuonò che piovve. Le amministrative del 5 Giugno 2016, nate per il Governo Renzi sotto la cattiva stella del pasticcio delle primarie napoletane e della sconfitta annunciata di Roma, sono andate per il PD oltre le più fosche previsioni. In particolare, la disfatta di Torino, non attesa, offre una chiave di lettura particolarmente interessante, perché sganciata da dinamiche strettamente locali.
E’ opinione diffusa, difatti, che il voto torinese sia stato un voto decisamente nazionale, che poco ha avuto a che vedere con l’operato –a parere unanime non cattivo- di Piero Fassino. Un voto, insomma, non contro Fassino ma contro Renzi.
Secondo il più classico gioco delle parti, all’indomani delle elezioni, si contrappongono le opposte analisi degli ottimisti a oltranza (pochi, in verità), che riducono la vicenda a mero fatto locale, e degli apocalittici nichilisti, che prefigurano l’imminente fine del renzismo sognando la spallata definitiva al referendum costituzionale di Ottobre.
Ci sono, però, dati oggettivi che emergono con forza all’indomani del voto, difficilmente discutibili. Intanto la debolezza delle strutture locali del Partito Democratico di cui Napoli è un caso eclatante: per la seconda volta consecutiva nella storia delle elezioni diretta del Sindaco, il Pds-Ds-Pd non arriva nemmeno al ballottaggio, ottenendo un risultato ancor più disastroso del precedente, a testimonianza che è venuto a mancare, nella città, persino il voto militante. Il paradigma del Segretario-Premier sembra non reggere più, come l’idea di partito liquido e di rottamazione come unica offerta politica.
Ancora, per la prima volta il ballottaggio penalizza nettamente il Partito Democratico a vantaggio dei cinque stelle, che raccolgono al secondo turno consensi trasversali, da sinistra e da destra. E’ un “tutti contro Renzi” che, applicato alle elezioni politiche con l’Italicum, rischierebbe seriamente di favorire la vittoria grillina in un possibile ballottaggio PD-5Stelle. Il modello Roma, che ha visto i voti della destra di Meloni e Salvini, quelli dei moderati sostenitori di Marchini e quelli della sinistra radicale di Fassina convergere sulla Raggi, annichilendo Giachetti, potrebbe ripetersi alle elezioni politiche.
La sconfitta di Renzi, da tutti giudicata tale, viene attribuita a fattori diversi e spesso di segno opposto, ma uniti da un minimo comune denominatore: l’arroganza. L’uomo è riuscito a coalizzare contro di sé l’intero arco costituzionale. Tra i militanti e i dirigenti democratici, il mea culpa più frequente è l’aver smarrito il legame con l’elettorato tradizionale di centro sinistra. Eppure, questa analisi non pare convincente. In realtà, l’architrave del progetto renziano -al netto degli slogan propagandistici- era e resta un cambiamento radicale del Paese attraverso le riforme costituzionali. Ma per fare questo, come Renzi aveva in un primo momento intuito, era necessario l’accordo con le forze politiche moderate, a partire dal centro destra di Berlusconi, per fronteggiare insieme l’avanzata dell’antipolitica grillina. L’aver rotto il patto del Nazzareno sull’elezione del Presidente della Repubblica (per accontentare probabilmente una minoranza interna che comunque non è stata recuperata) distruggendo così quel che restava della destra moderata di Forza Italia e cannibalizzando il nuovo centro destra alfaniano, attualmente nullo sul piano elettorale, ha dato a Renzi nell’immediato la fama di novello Machiavelli, ma alla lunga si sta rivelando un grave errore strategico. Potrà non piacere all’elettore del PD, ma lo story telling renziano non ha più nulla a che vedere con una stagione politica –quella dell’ulivismo prodiano, per intenderci- definitivamente tramontata. Per uccidere un centro destra già agonizzante, ma funzionale al disegno di riforma del Paese, accontentandosi di raccattarne pezzi più o meno funzionali (da Alfano a Verdini), Renzi è riuscito a scontentare la sinistra dura e pura, a suscitare l’ovvia reazione della destra moderata e a offrire ai suoi veri avversari, i grillini, uno strumento formidabile che rischia di farne i destinatari involontari di un consenso trasversale che non si limita all’area tradizionale dell’antipolitica, ma che raccoglie pezzi di elettorato di destra e di sinistra. Il tempo per recuperare, per Renzi e il Pd, è poco. Solo, probabilmente, quello dell’estate. Una lunga estate calda.