SALERNO – “Come è possibile che ciò che la Regione ha chiesto e che noi abbiamo diligentemente eseguito, diventa reato ?” si chiedeva e chiedeva l’ Arcivescovo emerito di Salerno a pag. 39 del suo libro titolato “Una vicenda amara lunga cinque anni per servire la comunità”. Una domanda pressante, se volete anche formulata in maniera semplicistica da una persona innocente di fronte ad una marea di accuse spropositate, che non ha avuto ancora una risposta; neppure dopo la sentenza che la Suprema Corte di Cassazione ha assunto lo scorso mercoledì 9 marzo 2016; una sentenza che ancora una volta, dopo quella di primo grado e di appello, ingenera dubbi e perplessità sui tantissimi misteri che hanno marcato e inquinato il normale corso della giustizia. L’arcivescovo emerito, S.E. Mons. Gerardo Pierro, e con lui gli altri imputati (primo fra tutti don Comincio Lanzara) dovranno ancora aspettare almeno qualche altro mese per la parte amministrativa/contabile e, forse, qualche anno per quella penale per poter esporre il cartello con la parole “fine”. E’ giusto tutto questo ?, si chiede ogni persona dotata di buon senso; certamente non è giusto. Quello che si annunciava come “il viale del tramonto”, di un’inchiesta giudiziaria che fece tremare le vene e i polsi di molti personaggi, si è comunque drasticamente ristretto sotto i colpi della Cassazione, ma non si è chiuso del tutto e non può essere ancora scritta la parola fine. Neppure la Suprema Corte se l’è sentita, in definitiva, di assolvere “perché il fatto non sussiste” gli imputati in attesa del giudizio finale: Nicola Gentile, Matteo Basile e Charles Caprara (tecnici comunali), Nicola Sullutrone e Roberto Rago (progettisti e direttori dei lavori), mons. Vincenzo Rizzo (capo economato della Curia), ed infine Giovanni Sullutrone (già presidente della Regione Campania e coprogettista) e don Comincio Lanzara (l’imputato d’oro per il quale la Procura si era intestardita a trovare prove inesistenti o delazioni fuorvianti). Per suo conto l’arcivescovo emerito Mons. Gerardo Pierro era già uscito, in appello, dal processo per “intervenuta prescrizione” alla quale il presule aveva espressamente rinunciato in precedenza. Il caso giudiziario esplose in maniera clamorosa la mattina del 15 luglio 2008 quando la Guardia di Finanza di Salerno agli ordini del pm Roberto Penna appose i sigilli all’antica struttura che ha generato tutti i guai per la Curia salernitana. Parlo, naturalmente, della “colonia San Giuseppe”, tanto per intenderci, quell’opera strutturale che tanto bene e solidarietà ha portato alla città di Salerno ed all’intera provincia per l’azione continua che ha messo in atto fin dalla sua fondazione voluta caparbiamente da S.E. Mons. Demetrio Moscato (con l’aiuto materiale di mons. Giuseppe Crea) nell’immediato secondo dopoguerra. Al centro dell’inchiesta, direbbe qualcuno di nostra conoscenza, un vero e proprio “reato linguistico” basato sulla corretta interpretazione della differenza in termini tra le parole “colonia” e “albergo”. E poi i tantissimi misteri emersi nel corso dei tre gradi di giudizio con sullo sfondo la controversa interpretazione linguistica dello “immutatio veri” avallato e/o sconfessato, in un turbinio di decisioni controverse e contrapposte, dalla Procura, dal Tar, dai giudici di primo grado, e da quelli di secondo e terzo grado, a dimostrazione di quanto un cittadino normale debba diffidare dall’avere “fiducia nella giustizia”. E già da detta interpretazione linguistica l’ex arcivescovo era comunque fuori perché la sua posizione era tale da non poter essere inclusa in quella sorta di “”mera coscienza e volontà dell’immutatio veri, ovvero il dolo generico, per il reato di abuso è necessario il dolo specifico caratterizzato dalla specifica volontà di arrecare un ingiusto vantaggio patrimoniale al privato beneficiario”” in quanto l’arcivescovo non aveva e non ha mai incontrato, in nessun modo ed in nessuna sede, i tecnici e i funzionari comunali e regionali. E poi perché il dolo generico si poteva identificare soltanto nel danno erariale per il finanziamento (non dovuto e non percepibile, secondo la Procura) dell’importo di 2.446.723, 74 euro che la Regione aveva concesso e che la stessa Regione aveva timorosamente bloccato (dopo l’insorgere del sequestro della struttura); provvedimento della Regione che il TAR aveva sospeso pronunciandosi in favore della Curia che martedì prossimo 15 marzo 2016 sarà chiamata a difendersi nel giudizio di merito dinanzi allo stesso TAR; mentre per il danno erariale si dovrà aspettare l’inizio del processo, dinanzi alla Corte dei Conti, fissato per il prossimo mese di maggio. Ma come avete letto l’immutatio veri consiste nell’aver arrecato un ingiusto vantaggio patrimoniale al privato cittadino, mentre qui parliamo di una struttura nata e proliferata, nonché ristrutturata, sempre all’insegna della solidarietà e della beneficienza, altro che albergo a quattro o cinque stelle;
na struttura che di certo privata non poteva e non può essere considerata in quanto proprietà della Curia e non di Mons. Gerardo Pierro o di Don Comincio Lanzara. Ci troviamo, quindi, di fronte ad un “aborto giuridico” che la Cassazione ha avuto qualche timore a ”cassare” e lo ha soltanto cancellato con una formula che è tutto un programma intriso di sofismi giuridici, rinviando per la parte della “scorretta concessione edilizia per la costruzione delle due piscine” che dovevano trasformare quella “colonia marina” in una “struttura alberghiera ricettiva a quattro stelle” alla Corte di Appello di Napoli; ma abbiamo visto che nella realtà dei fatti così non è. Molto verosimilmente la Suprema Corte ha voluto salvare il salvabile, cioè il principio (quasi soltanto filosofico-giurisprudenziale: in mancanza di prove dirette di specifiche collusioni tra i pubblici ufficiali del Comune di Salerno e la richiedente Arcidiocesi), su cui la Corte di Appello aveva basato la sua condanna per tutti gli altri imputati, compresi quelli che il processo di primo grado aveva assolto. Senza dire che la presunta scorretta concessione edilizia è stata, per la pubblica accusa, un linea di colpevolezza insuperabile che merita di essere raccontata in tutti i suoi aspetti: “”Con provvedimento 2.3.2009 n. 1 lo Sportello Unico per le Attività Produttive (SUAP) di Salerno annullava, in via di autotutela, l’autorizzazione unica 2.5.2008 n. 26 per la realizzazione di strutture stagionali e di altre opere antistanti il complesso immobiliare denominato “Villaggio San Giuseppe” rilasciata in favore dell’omonima associazione che lo conduceva in gestione per conto della Curia vescovile di Salerno; lo stesso Comune si rimangiava l’autorizzazione a costruire e l’Associazione ricorreva al TAR che con sentenza n. 13794 del 21 dicembre 2010 accoglieva “parzialmente” il ricorso e annullava il provvedimento di revoca in autotutela””. In pratica il TAR dava ragione all’Associazione Villaggio San Giuseppe nel merito della nullità della revoca e fissava precisi vincoli alle costruzioni da effettuare. L’Associazione rispettava fedelmente tutti i vincoli e, tra l’altro, non provvedeva alla costruzione della due piscine, comunque autorizzate; anzi per la precisione una di queste che già esisteva dal 1975 non fu neppure ristrutturata. Dunque, oltre alle due sentenze del TAR su finanziamento e concessione edilizia per le piscine, c’è anche una terza sentenza del TAR in favore dell’Arcidiocesi ed è quella del 5 dicembre 2013 (depositata in segreteria il 4 aprile 2014) con cui il tribunale amministrativo annullava ben tre delibere (la n. 2 del 21.09.13, la n. 683 dell’1.08.12 e la n. 915 del 20.11.12) con le quali il Comune di Salerno tentava di revocare le concessioni edilizie per una millantata “variante parziale al PUC” che era stata puntualmente contestata in sede legale dalla Curia salernitana e dall’Associazione Colonia San Giuseppe. Una domanda, a questo punto, dovrebbe scaturire naturale ed ovvia: “A cosa serve il TAR se per tre volte (la concessione edilizia per le piscine, l’erogazione del finanziamento regionale e l’annullamento di ben tre delibere comunali) da ragione alla Curia e per tre volte, nelle sedi dibattimentali i pronunciamenti amministrativi non vengono tenuti nel debito conto ?. Ma la cosa più eclatante riguarda, però, le requisitorie pronunciate dal PG della Corte di Appello (dott. Martuscelli) e dal PG della Cassazione che hanno chiesto a gran voce di cancellare anche dai ricordi un’inchiesta nata male e condotta peggio e sentenziata più volte sulla falsariga del “copia-incolla” rispetto alle perizie tecniche acquisite agli atti; due richieste molto forti che sembrano essere cadute nel vuoto se, pur avendo parzialmente ridimensionato il caso (l’Appello) e totalmente cancellato il caso (la Cassazione), non hanno inferto il colpo fatale all’inchiesta che avrà un’appendice, forse anche velenosa ma letteralmente inventata, dinanzi alla Corte di Appello di Napoli per un reato (quello delle piscine) che non sta né in cielo e né in terra. Ma, per concludere, la cosa più grossa e per certi versi inquietante e contraddittoria è l’assoluzione in Cassazione “per intervenute prescrizioni”; qui siamo davvero al paradosso in quanto da un lato la Corte ha riconosciuto l’assoluta inesistenza del reato e dall’altro lato ha preferito la formula della prescrizione onde evitare di cancellare, o meglio cassare, tutto il processo ed annullare, di fatto, anche l’appendice dinanzi alla Corte dei Conti per il ristoro del presunto danno erariale inerente il finanziamento degli oltre due milioni di euro che la Regione aveva concesso alla Curia. Questa è la giustizia, controversa e mai definitiva, che segna le tappe tormentate di ogni iter giudiziario in questo benedetto Paese.
“Si è finalmente conclusa l’amara vicenda giudiziaria che ha investito il Villaggio San Giuseppe, coinvolgendo vescovo e presbiteri, progettisti e tecnici, funzionari regionali e comunali, collaboratori vari” aveva scritto Mons. Gerardo Pierro nel suo libro; probabilmente nessuno gli aveva spiegato che in questo Paese le vicende giudiziarie non finiscono mai e che, quando finiscono, lasciano sempre strascichi e misteri.
Non resta che sperare nella giustizia divina che, a mio avviso, ha già assolto con formula piena gli uomini di una Curia che è stata capace di portare addirittura due volte lo stesso Papa (Giovanni Paolo II) a Salerno, il 26 maggio 1985 e il 4 settembre 1999, con eventi consegnati alla storia. C’è da registrare, infine, la dichiarazione dell’arcivescovo in carica S.E. Mons. Luigi Moretti diffusa dal suo portavoce don Alfonso D’Alessio:
“L’Arcivescovo di Salerno-Campagna-Acerno S.E. Mons. Luigi Moretti ha appreso con soddisfazione la conclusione dell’iter giudiziario, presso la Corte di Cassazione, riguardante l’Angellara Home e che ha visto accolte le ragioni della difesa. Inoltre si riserva di venire a conoscenza delle motivazioni della sentenza per un commento più puntuale. L’Arcivescovo assicura la preghiera per quanti sono stati coinvolti nella vicenda giudiziaria”. Una dichiarazione assolutamente serena e in linea con i principi della Chiesa, che allontana ogni dubbio sulla ritrovata unità della Curia salernitana.