Aldo Bianchini
SALERNO – “”Alle ore 19.40 di ieri 20 febbraio, a Salerno, Piazza D’Aiello, Tura De Marco Daniela (cl. 92) ha allertato il 112 perché, pur essendoci la luce accesa in casa, il padre Tura De Marco Eugenio (cl. 56) non rispondeva né al citofono né ai diversi messaggi su whatsapp. Sul posto interveniva una pattuglia della Radiomobile della Compagnia Carabinieri di Salerno, che constatava la veridicità dei fatti spiegati dalla ragazza. Mentre i militari tentavano di forzare la porta di ingresso per accedere all’appartamento, la giovane, salendo su una grata presente sotto una finestra dell’abitazione, rompeva il vetro, entrava in casa e apriva la porta ai militari. Entrati nell’alloggio, i Carabinieri rinvenivano l’uomo riverso, privo di vita, nei pressi della porta di ingresso del soggiorno. Sul posto, pertanto, giungeva personale del Nucleo Investigativo del Reparto Operativo del Comando Provinciale, la Sezione Investigazioni Scientifiche dello stesso reparto e il PM di turno presso la Procura di Salerno……””. Può essere sufficiente uno scarno comunicato della Questura (diramato nella giornata di domenica 21 febbraio 2016), anche se molto esplicativo circa la dinamica dei fatti narrati, per spiegare le ragioni, sociali – economiche – psicologiche – ambientali, in ragione delle quali un simile delittuoso evento si è consumato probabilmente sotto gli occhi di un’intera comunità disattenta e in un posto, il centro storico, da sempre ad alto rischio ? Certamente non è sufficiente, anche perché il compito delle Forze dell’Ordine non è specificamente quello di condurre indagini sociologiche, anche se quelle giudiziarie non dovrebbero mai discostarsi molto dalle analisi ambientali per giungere il più presto possibile alla verità. Ma il delitto dell’altra sera, in pieno centro storico “Le Fornelle”, aberrante nella sua dinamica, e l’impegno massiccio degli investigatori che sono riusciti ad individuare e arrestare il presunto colpevole nella persona del fidanzato della figlia della vittima non fanno altro che riportare un’ombra inquietante su quella zona della Città che ha, fin dalle sue origini, evidenziato due facce contrapposte: quella pulita e quella sporca, due mondi completamente diversi che riescono, comunque, a sopravvivere in un habitat naturale da capogiro, tanta è la bellezza dei vicoli, delle piazzette, degli archetti, degli scalini, insomma di tutto il “centro storico”. Certo, delitti aberranti sono accaduti anche in altre zone della città e ne accadranno ancora, ma quando un simile evento accade nel centro storico subito l’intera città evoca paragoni che non stanno né in cielo e né in terra ma che si attagliano, molto spesso e molto profondamente, alla “realtà di quella realtà” in maniera calzante ed incalzante. Nel centro storico di Salerno continuano a vivere pochi noti delinquenti e tantissimi anonimi ma specchiati cittadini (professionisti, impiegati, semplici lavoratori); i primi alla stregua dei soliti imbecilli delinquono anche per sciocchezze, i secondi si alzano presto la mattina per contribuire, con il loro lavoro, allo sviluppo socio-economico-culturale di tutta la città. Anche la cosiddetta movida ha recitato la sua parte deleteria nei rapporti tra gente perbene e i soliti idioti che adesso vengono definiti dal governatore “cafoni” (solo perché hanno sfregiato il nuovo look della spiaggetta di Santa Teresa) dimenticando che Egli stesso ha proposto, favorito e consentito che la movida esplodesse con tutte le sue contraddizioni e senza alcun freno. Ma non è solo il problema della movida che stringe in una morsa asfissiante quella fetta di popolazione, c’è un retaggio storico che è difficilmente estirpabile da un contesto sociale che, invece, ha fatto passi da gigante anche sotto il profilo del miglioramento della vita dal punto di vista ambientale. Ancora oggi nel centro storico affondano le loro radici famiglie dal passato e dal presente molto pericoloso che trascinano in un vortice senza fine anche le nuove generazioni i cui rampolli adolescenti già si muovono e si atteggiano come se fossero almeno dei “capetti” pronti al balzo di qualità. Sembrava che il terremoto del 1980 avesse in qualche modo spezzato i vincoli parentali e delinquenziali spargendoli per la città e che l’antica casba si fosse trasformata in un’accogliente realtà, purtroppo non c’è stato niente da fare e dovunque accade un crimine efferato c’è sempre uno strano vincolo con il centro antico. E allora cosa fare ? direbbero in tanti. Ebbene bisognerebbe innanzitutto studiare attentamente il fenomeno che è essenzialmente culturale in quanto, nonostante i tantissimi progetti di recupero ambientale e sociale messi in atto dalle associazioni e dallo stesso comune, non si è ancora riusciti a perforare quella cappa di omertosa insoddisfazione che pervade quel tipo di popolazione e che finisce per esplodere in atti inconsulti, o peggio ancora imbecilleschi e cafoneschi, contro il resto della città che, fortunatamente, continua la sua marcia di legalità e di trasparenza. In questo ambito ha un immenso valore tutto ciò che la scuola può fare in comunione con le famiglie, almeno per tentare di arginare il fenomeno e preparare le nuove generazioni a momenti di maggiore fusione con la parte buona dello stesso centro storico che è la stragrande maggioranza dei residenti. Proprio qualche giorno fa, nel contesto di un articolo dedicato al tentato omicidio avvenuto nel plesso scolastico “Genovesi” scrivevo dell’esperienza portata avanti, alcuni anni fa dall’allora dirigente Caterina Cimino, in pieno centro storico con un gruppo misto di ragazzi scelti con molta cura e provenienti dalle diverse realtà sociali cittadine in un mix sicuramente positivo attenzionato, com’era, dalla professione del giornalista vista da vicino, cioè con la frequenza delle redazioni. Due articoli in pochi giorni su due fatti di “nera” che ho cercato di vedere e di analizzare non soltanto dal punto di vista della cronaca veloce e superficiale; sarebbe stato sufficiente dare le notizie, lavorare un po’ i comunicati ufficiali di Procura e Questura per riempire qualche pagina; invece non è soltanto questo il compito di un giornalista. Due fatti delittuosi consumati, purtroppo, da giovanissimi esponenti della classe che un domani dirigerà il Paese o prenderà strade pericolose; due ragazzini nell’istituto scolastico Genovesi e due ragazzi sulla scena del delitto delle Fornelle, per un totale di 77 anni spesi malissimo. Con al centro una giovanissima ragazza ventiquattrenne che è riuscita in poche settimane, ribadisco poche settimane, ha vivere una intesna storia d’amore e di perdizione; incolpevole materiale del delitto certamente ma responsabile di chissà quanti altri momenti che denotano la caduta dei freni inibitori delle nuove generazioni, senza voler con questo generalizzare più di tanto. La sera del delitto delle Fornelle, proprio intorno alle ore 20.00, mi trovavo nella zona di Largo Campo e stavo (a non più di un centinaio di metri dall’area del crimine) percorrendo una stradina che porta appunto alla storica piazza. All’incrocio con il vicolo che porta verso la chiesetta di Santa Rita c’era un piccolo gruppo di ragazzi (parenti stretti di quelli che hanno devastato la spiaggetta di Santa Teresa e certamente imbecilli anche se avevano già le sembianze somatiche di chi è avviato su un crinale pericoloso) che beffeggiavano i passanti sperando di innescare la miccia per qualche insano scoppio di violenza gratuita; in quei minuti è transitata anche un’auto della polizia di stato che si è fermata in prossimità del gruppetto per osservarne forse le mosse, poi è andata via (probabilmente richiamata dai clamori del delitto) lasciando campo libero a quegli imbecilli che hanno continuato la loro serata brava mentre a non più di duecento metri di distanza si stava sviluppando un dramma inaudito. Un fatto del genere può voler dire tutto ma può anche voler dire niente; esiste e il solo fatto che esiste deve indurre a delle riflessioni collettive per capire anche le ragioni (perché ci sono sempre delle ragioni) che portano a simili derive. Soltanto così potremmo salvare il salvabile, e c’è veramente tanto da salvare.