Direttore di Salerno Economy
SALERNO – E’ davvero difficile comprendere le ragioni della sottovalutazione che a livello centrale – sia nelle massime Istituzioni che nelle stanze della politica soprattutto a trazione Pd – è emersa nei confronti delle diverse forme di localismo economico e finanziario intese nella loro valenza positiva. Come è noto, dopo la riforma delle Popolari sul tavolo del Governo sta per giungere quella delle Banche di Credito Cooperativo che, per la verità, hanno messo mano per tempo ad un proprio progetto in sintonia con quanto veniva evidenziato dalle autorità di vigilanza rispetto alle criticità riscontrate anche alla luce del mutato contesto normativo internazionale. Il punto vero, però, al di la delle cosiddette tecnicalità di sistema, è che nella stagione della drastica “compressione” della dimensione locale anche dei processi di governance dello sviluppo economico e produttivo (in parte certamente positiva), è apparso chiaro fin dall’inizio la volontà politica di proporre una “visione” (?) spesso non attenta – per usare un eufemismo – alla storia di movimenti molto radicati nelle comunità più periferiche (da vari punti di vista) del Paese. Nel tempo della “fretta” istituzionale, del “cambiare verso”, della “rottamazione” e della svolta efficientista (?) a tutti i costi, hanno preso forma nuove elaborazioni del “pensiero” politico ed economico che nella sostanza colpiscono in profondità proprio quelle porzioni di territorio emarginate (o auto-emarginate, e questo è un altro aspetto che andrebbe meglio analizzato). La vicenda delle antiche Casse Rurali, per esempio, non può essere certo “buttata” nel calderone del credito all’italiana di provincia che ha sempre privilegiato poltronismi di varia natura e “prebende” a lungo tollerate se non sollecitate dalla stessa politica. Le Casse Rurali sono un pezzo di storia del Paese che ha consentito a tante piccole e piccolissime comunità di dotarsi di uno strumento di emancipazione sociale, culturale ed economica. Ed è anche ingiusto individuare le Banche di Credito Cooperativo come un freno ai processi di aggregazione all’interno del circuito bancario nazionale. Come ha ricordato il presidente di Federcasse Alessandro Azzi in un’intervista al Corriere della Sera nei giorni scorsi, gli indicatori tecnici che indicano la solidità delle Bcc sono mediamente superiori a quelli che si rintracciano nel sistema bancario italiano. Né i salvataggi delle Bcc in difficoltà hanno pesato su risorse esterne al movimento del credito cooperativo. Insomma, si è fatta a dir poco confusione, in maniera ovviamente non casuale, anche perché il dato aggregato delle Bcc lascia emergere il terzo gruppo bancario italiano. E non è una cosa da poco. Ma, se il contesto di riferimento è questo, vista da Sud la vicenda in corso della riforma di questa tipologia di istituti di credito, diventa ancora più triste. Perché la classe dirigente meridionale si conferma del tutto assente rispetto alle sfide ed alle battaglie che sono prioritarie per assicurare un futuro meno grigio e declinante dei territori del Mezzogiorno. Se anche il credito di prossimità come quello delle Bcc viene messo in discussione e non si leva una voce sola – al di la di quella residuale di cacicchi vetero/municipalistici interessati in primo luogo al loro potere personale – a sottolineare nelle sedi istituzionali competenti la necessità di non comprimere o penalizzare la presenza capillare delle Bcc in tante parti del Sud, è perché da tempo si è prodotto un distacco tra le comunità e quanti avrebbero il dovere di tutelarne gli interessi. Non sorprende, quindi, la solitudine del movimento del credito cooperativo che si rivela una solitudine di ordine sociale e culturale, prim’ancora che politica ed istituzionale. Il problema è che è venuto a mancare quasi del tutto un disegno di largo respiro, all’interno del quale tutte le componenti necessarie all’attivazione di dinamiche di sviluppo strutturali – ed il credito di prossimità è certamente in questo ambito un elemento fondante – si configurano come tasselli di un progetto di media e lunga durata. Né all’orizzonte si intravede un percorso di recupero e di valorizzazione del “buono” che pure c’è nelle regioni meridionali come in tante altre “periferie” del Paese che rischiano di essere trascinate in un verticalismo decisionale orientato a privilegiare principalmente quelle comunità che esprimono classi dirigenti capaci di incidere a livello nazionale.