Aldo Bianchini
SALERNO – Quello che è accaduto nel Tribunale di Milano, uno dei luoghi simbolo della giustizia nazionale, è la rappresentazione plastica di come noi italiani non sappiamo organizzarci sul piano della sicurezza. Non è neppure il caso di ripercorrere la storia di quel tribunale (come sta facendo in queste ore l’ex pm Antonio Di Pietro) per capire che uno dei luoghi ritenuto più sicuro a livello nazionale è un colabrodo e fa acqua da tutte le parti. La frase riportata nel titolo di questo approfondimento di per se dà la spiegazione logica di quanto avvenuto: tutti volevano fare qualcosa ma nessuno non sapeva cosa fare. Incredibile ma è così; la dice tutta, secondo me, l’immagine di quel carabiniere con il berretto in mano che scende giù per le scale del palazzo e risponde, quasi da ebete e con sguardo perso nel vuoto, alle incalzanti domande di un giornalista che, invece, sale le scale e riprende con il suo telefonino tutto quello che può. Ma Expo incalza e saremo costretti ad ospitare in sicurezza milioni di visitatori, ed oggi scopriamo che l’appalto per la sicurezza dell’esposizione mondiale è stato vinto dalla stessa ditta che la gestisce per il tribunale di Milano con 16 uomini, dei quali soltanto alcuni armati. I fatti ci dicono che l’attentatore killer è entrato in tribunale con una pistola dotata di doppio caricatore, è andato in aula al terzo piano ed ha ucciso due persone, poi è uscito per il corridoio attraversandolo per diverse decine di metri e ferendo un commercialista, è sceso al secondo piano andando alla ricerca della stanza del giudice uccidendolo sul colpo, è sceso a piano terra ed è uscito (forse dalla stessa porta da cui era entrato) con la pistola in pugno, ha camminato nella pubblica via per alcune altre decine di metri, è salito a bordo del suo scooterone ed è partito alla volta di Vimercate, ha viaggiato per oltre venti chilometri e finalmente, forse perché colto da malore, è stato catturato. Io non ho esperienza in fatto di sicurezza quindi vado a braccio e, forse, a naso. Alle avvisaglie del trambusto la prima cosa da fare era quella di chiudere (trattandosi di un palazzo) le vie di entrata e di uscita anche perché ad ogni varco c’era almeno un addetto alla sicurezza; il blocco totale non doveva consentire a nessuno, men che meno all’attentatore, di uscire se non dopo rigorosissimi accertamenti dell’identità. Invece c’è stato un fuggi fuggi generale in cui “tutti volevano fare qualcosa ma non sapevano cosa fare”. Sante le parole che scrisse il mitico Indro Montanelli dopo la “strage di Fiumicino” in cui morirono tredici persone a causa di un attacco terroristico da parte di un gruppo palestinese estremista facente capo ad Abu Nidal, era il 27 dicembre 1985: “Le scene di panico all’aeroporto e del fuggi fuggi generale danno l’esatta dimensione della nostra impreparazione”. A trent’anni di distanza abbiamo assistito alle stesse identiche scene, carabinieri e poliziotti, guardie giurate, uomini, donne e bambini che correvano avanti e indietro (soprattutto le scatenate donne !!) nelle strade intorno al tribunale senza sapere dove andare, cosa fare e come difendersi e difenderci. Incredibile ma vero. Il progresso in trent’anni è stato esaltante e devastante al tempo stesso. “A che serve il progresso se poi ti uccidono ?” ha scritto Adriano Celentano in una lettera aperta al Governo del Paese; ed ha perfettamente ragione anche perché lo stesso progresso (metal detector, telecamere, cimici, iphone, ipad, ecc.) hanno creato delle sacche di insofferenza in chiunque (avvocati e magistrati compresi !!) venga sottoposto a controlli rigidi; non riusciamo a trasfondere il rispetto delle rigide norme di sicurezza che tutti osserviamo negli aeroporti anche nella vita quotidiana dove per il semplice fatto di possedere un tesserino ci si sente nella pienezza del diritto di superare tutte le barriere. Dobbiamo convincerci che non siamo invincibili e, soprattutto, dobbiamo cominciare a convivere col il pericolo senza lasciarci coinvolgere da esso più di tanto, pur senza sottovalutarlo. Qualcuno l’ha definita la “casta del tesserino” che deve, però, incominciare a rendersi conto che quando si parla di sicurezza non c’è casta che tenga.
direttore: Aldo Bianchini
Gentile Direttore,
io non so fino a che punto si possano evitare certi eventi tragici, pur rinunciando a molte delle nostre libertà. Forse l’unica soluzione è di avere una sorta di GRANDE FRATELLO, una cambia di regia con telecamere sparse un po’ dappertutto, che ci controlla in ogni mossa, non dico nelle nostre case, ma almeno nei luoghi pubblici, per così dire “sensibili”.
Il punto è che la sicurezza costa, e in tempi in cui si taglia su tutti i settori, mi sembra difficile immaginare grossi cambiamenti. I tribunali, gli ospedali, le scuole sono tutti luoghi vulnerabilissimi, e infatti di tanto in tanto compare lo “squinternato” (per usare un termine in voga nella nostra città) di turno che ce lo ricorda.
Quante volte mi è capitato di entrare in tribunale e trovare il metal detector non funzionante? Per non parlare, poi, del tribunale civile, ubicato nella scuola Vicinanza, dove non esiste neanche fisicamente il meta detector o una guardia di carne ed ossa all’ingresso, o degli uffici del Giudice di pace.
Poi, però, mi capita di andare a vedere una partita di pallone, allo stadio Arechi, e trovare fuori e dentro il perimetro di ingresso (specie alla Curva Sud) decine e decine poliziotti, camionette, ecc. E poi ci domandiamo come si spendono i soldi per la nostra sicurezza…