Aldo Bianchini
SALERNO / PADULA – Al giorno d’oggi si fa un gran parlare delle cosiddette “scene del delitto” e della loro preservazione da ogni tipo di contaminazione; sulle scene del delitto dissertano opinionisti vari e impenitenti saccenti ma anche ottimi criminologi. In pratica ogni “scena del delitto” viene quasi vivisezionata punto per punto, vengono repertati anche gli elementi apparentemente inutili ed inconsistenti fino al punto di estrarre con minuziosa ossessività il tanto decantato “DNA” (come prova scientifica) anche da frammenti invisibili che sono presenti sulla scena e che, spesso, avviano alla risoluzione i casi più complicati ed apparentemente irrisolvibili. Non era certamente così nel lontano 1978, quando sulla scena di Via Mario Fani si precipitarono tutti e tutti irruppero in maniera pesante e sgraziata fino al punto di calpestare ogni angolo, anche quelli più nascosti, della “scena del crimine”. Decine e decine di inquirenti, investigatori, autorità, semplici cittadini che si muovevano a loro piacimento senza sapere neppure cosa cercare o cosa preservare per le successive fasi di quelle che si annunciavano come “delicatissime e irripetibili indagini”. Tra l’auto del presidente del Consiglio Nazionale della Democrazia Cristiana, Aldo Romeo Luigi Moro, l’auto di scorta e il selciato stradale c’erano i corpi senza vita, crivellati di proiettili, dei cinque uomini della scorta: il Maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi (fedelissimo di Moro), l’appuntato Domenico Ricci, il Brigadiere Francesco Zizzi, l’agente Raffaele Jozzino e l’agente Giuliano Rivera. Quella mattina, era il 16 marzo del 1978, le Brigate Rosse —con la “operazione Fritz” e con la cosiddetta “tecnica a cancelletto” (bloccare avanti e dietro la colonna delle due auto del presidente Moro) già utilizzata dai terroristi tedeschi della RAF (Rote Armee Fraktion dei famosi terroristi Andreas Baader e Ulrike Meinhof)— avevano sferrato l’attacco più duro e sanguinoso al cuore dello Stato; dalla scena del crimine mancavano lo statista e due delle sue cinque borse (sparite nel nulla così come l’agenda rossa di Paolo Borsellino in quel tragico 19 luglio 1992 nella “strage di Via d’Amelio”). In quel momento chi era Aldo Moro per le BR ? La risposta la fornì Mario Moretti (capo riconosciuto di quell’attacco) nel primo comunicato dopo l’uccisione della scorta e il rapimento dello statista: « Chi è Aldo Moro è presto detto: dopo il suo degno compare De Gasperi, è stato fino a oggi il gerarca più autorevole, il “teorico” e lo “stratega” indiscusso di questo regime democristiano che da trenta anni opprime il popolo italiano […] la controrivoluzione imperialista […] ha avuto in Aldo Moro il padrino politico e l’esecutore più fedele delle direttive impartite dalle centrali imperialiste. » Le tragiche immagini televisive, in bianco e nero, di quella mattina che vediamo sulle televisioni di tutto il Paese ancora oggi ci colpiscono e ci feriscono e ci fanno rabbrividire e turare il naso; i criminologi sbiancano soltanto al pensiero che da quella visione trasuda tutta l’insipienza, l’inesperienza e l’approssimazione di quella enorme pletora di investigatori che forse apparivano palesemente più spaventati dei semplici cittadini romani che quella mattina si precipitarono sul luogo dell’agguato soltanto per vedere. Quella stessa mattina del 16 marzo 1978 il prestigioso quotidiano “La Repubblica” era uscito in edicola con un titolone a tutta pagina: “Antelope Cobbler ? Semplicissimo è Aldo Moro, presidente della DC”. L’articolo a firma di Eugenio Scalfari (mitico direttore) rispecchiava quasi in toto il mio pensiero, e quello di tantissimi altri, su quella scandalosa vicenda della Lockheed che aveva, si disse, pagato incredibili tangenti alla politica nazionale per la fornitura dei famosi o famigerati C/130 (aerei militari da trasporto). La politica italiana era caduta così in basso che gli scandali si succedevano agli scandali; ecco perché la “lotta armata” condotta dalle Brigate Rosse e dai gruppi eversivi di destra continuava a mietere vittime ed a fare proseliti tra le giovani generazioni. Per avere, però, un quadro più completo di quello che si viveva in quei giorni va ricordato che appena due giorni dopo la strage di Via Fani, esattamente il 18 marzo 1978 alle ore 19.30 di sera, ci fu l’assassinio dei due giovani Fausto e Iaio; una sera di fine inverno come tante che si trasformò in un’assurda tragedia che vide (sebbene poi prosciolto con provvedimento emesso il 6 dicembre 2000 dal GUP, Clementina Forleo —nota per la sua clamorosa inchiesta sulla Bnl-Unipol e per aver denunciato ad Annozero le pressioni subite dal potere politico di sinsitra–, con la testuale motivazione “pur in presenza di significativi elementi indiziari a carico degli indagati, appare evidente la non superabilità in sede processuale di tale limite indiziario”) come protagonista Massimo Carminati, legato alla destra eversiva romana e alla Banda della Magliana; le sue frequentazioni all’interno dei Servizi Segreti (almeno con due agenti del Sismi) lo resero presto un personaggio ambiguo, accusato dell’omicidio Pecorelli e di depistaggio sulla strage alla stazione di Bologna, di vicinanza ai NAR fino a Valerio Fioravanti (poi ricompreso nel “caso Moro”) ed anche a Marco Donat Cattin (figlio del ministro Carlo Donat Cattin e cofondatore di Prima Linea) e già autore in quel periodo di numerose azioni di fuoco. Il brutale assassinio di Fausto Tinelli e Lorenzo Iaio Iannucci (queste erano le generalità complete di Fausto e Iaio), uccisi con otto proiettili di pistola, non fu mai chiarito e rientrò subito nei grandi misteri della repubblica. Il duplice delitto di Via Mancinelli a Milano aveva a che fare con la strage di Via Fani ? Esistono delle teorie molto suggestive in merito, ma nessuna di esse è suffragata da prove concrete. Attualmente, cioè oggi, Massimo Carminati è in carcere con l’accusa di essere stato il principale artefice di “mafia capitale”, quella sconvolgente inchiesta giudiziaria con risvolti politici tra destra e sinistra che ha coinvolto mezza Roma in scandali davvero paurosi. La domanda che ai nostri tempi ognuno si pone è semplice: “Perché le Brigate Rosse decisero proprio in quel momento di sferrare l’attacco più duro e sanguinoso al cuore dello Stato ?”.Le risposte, ovviamente, potrebbero essere tantissime. Una per tutte ha provato a darla, l’altra sera, l’ex parlamentare democristiano Guglielmo Scarlato (figlio d’arte dell’indimenticato Vincenzo) nel contesto del convegno “Il caso Aldo Moro ed il tramonto della Repubblica” (foto tratte da Ondanews.it) ottimamente organizzato a Padula dall’associazione “Amici di Padula” presieduta da Vincenzo Spinelli, convegno moderato dal collega Lucio Mori alla presenza del sindaco Paolo Imparato (che ha invitato esplicitamente il presidente Spinelli a intensificare gli appuntamenti così importanti) e del consigliere regionale Donato Pica; tra gli ospiti della serata anche il presidente della Comunità Montana Raffaele Accetta. Ma ritorniamo al nostro racconto. Ebbene nel corso della sua “lectio-magistralis” l’ottimo avvocato penalista salernitano e storico della D.C. ha messo a fuoco, da par suo, i momenti salienti della politica di quel tempo non tralasciando gli aspetti anche nascosti e segreti di quello che è passato alla storia come il “caso Moro” che in sede processuale è giunto ormai al “Moro quinquies” già celebrato e ad una nuova indagine attualmente in corso dopo ben trentasette anni da quella strage della democrazia. Il lungo intervento di Scarlato ha riportato alla mente che sulla scena del crimine per analizzare, investigare, scoprire o semplicemente per guardare irruppero, sia nell’immediatezza del fatto che nei cinquantacinque giorni successivi (perché tanto durò la prigionia di Aldo Moro che da quella tragica mattina scomparve nel flutti dei misteri più cupi della “prima repubblica”), una serie impressionante di personaggi più o meno da catalogare come presunti addetti ai lavori. Sulla scena ampia ed allargata, che andava dal 16 marzo al 9 maggio del 1978, salirono quindi: i tre servizi segreti, la famiglia, il governo, il ministero dell’interno, il pm Luciano Infelisi, le brigate rosse, Aldo Moro, il PCI con Pecchioli, il PSI con Bettino Craxi – Giuliano Vassalli e Franco Piperno, Amintore Fanfani, la CEI (Conferenza Episcopale Italiana) e addirittura il PAPA sua santità Paolo VI (grande amico personale di Aldo Moro). Ben tredici soggetti diversi e decisamente in contrapposizione tra loro, una lunga agonia nel corso della quale non fu possibile trovare una strategia comune; e fu la fine. Subito dopo la strage, consumata intorno alle ore 9.02 del 16 marzo 1978, il pm di turno Luciano Infelisi (che ritornerà clamorosamente alla ribalta qualche anno dopo con il “caso Abu-Abbas”, il terrorista palestinese internazionale protagonista della “crisi di Sigonella” tra Bettino Craxi e il presidente americano Ronald Regan) nel giro di cinque minuti ordinò di cingere d’assedio tutta la città di Roma; molto tempo dopo si scoprirà che il primo posto di blocco fu attuato alle ore 9.24 sul “GRA” di Via Tiburtina; alle ore 9.25 in zona Via Trionfale Pineta Sacchetti; alle ore 9.33 in Via Salaria e soltanto alle ore 9.34 due elicotteri decollarono da Pratica di Mare per sorvolare la zona della strage. Tutte manovre molto distanti dalla zona del sequestro e della probabile fuga anche se la Fiat 132 utilizzata dai brigatisti fu materialmente intercettata alle ore 9.23 in Via Licinio Calvo. Alle ore 9.37 (trentacinque minuti dopo l’agguato) Aldo Moro era già nel covo di Via Gradoli. Alle ore 9.45 Roma fu praticamente cinta d’assedio; qualche ora più tardi i posti di blocco vennero distribuiti in tutto il Paese. Alle ore 10.10 l’edizione speciale del Tg/1 con Bruno Vespa diede la notizia della strage e del rapimento; subito dopo Paolo Fraiese in diretta da Via Fani fornì una prima descrizione-ricostruzione della strage, subito dopo Giuseppe Marrazzo, detto Jò, intervistò i primi testimoni. Alle ore 10.20 Andreotti, Berlinguer, Craxi, Zaccagnini, Romita, La Malfa, Lama, Benvenuto e Macario si incontrarono a Palazzo Chigi. Alle ore 11.30 il ministro dell’interno Francesco Cossiga convocò al Viminale il comitato di sicurezza nazionale. La sera alle ore 20.45 la Camera dei Deputati votò la fiducia per il quarto governo Andreotti tra urla e contestazioni. Perché tutti questi ritardi e perchè i blocchi totali furono eseguiti con 40 minuti di ritardo rispetto all’ordine del magistrato ? Disorganizzazione o compromettente lentezza ? I segreti si aggiungono ai segreti ed ai misteri. Ma un fatto era comunque certo: il commando non aveva lasciato la capitale. Se così fu (come fu !!), non si riesce ancora a capire come mai gli investigatori dell’epoca, ben sapendo che il gruppo armato delle BR con Moro prigioniero non poteva aver lasciato la capitale, non riuscirono ad individuare in tempo i “covi di Via Gradoli e di Via Montalcini” (nonostante le sedute spiritiche di Romano Prodi !!) scoperto solo a seguito di una irruzione dei vigili del fuoco chiamati per una perdita d’acqua (artatamente organizzata dalle stesse BR) e si fecero trascinare nelle assurde ricerche nel “lago della Duchessa” dopo la soffiata di un malavitoso pentito. Secondo una teoria del fratello di Moro, Carlo Alfredo –magistrato e autore di un libro–, ci sarebbe stata una terza prigione situata in un luogo di mare in considerazione della sabbia ritrovata sul corpo del fratello assassinato. Così come non si riesce a capire perché soltanto in questi giorni è venuto alla luce l’inquietante notizia che nella prigione di Moro sarebbe entrato, forse più volte, un sacerdote per confessare lo statista; si tratta di “don Antonio Mennini” (attuale nunzio apostolico in Gran Bretagna) che è stato autorizzato da Papa Francesco a deporre dinanzi alla Commissione Parlamentare d’Inchiesta (lunedì 9 marzo 2015) e che ha puntualmente smentito ogni fantasiosa supposizione. Così come non si riesce a capire perchè le 17 audiocassette ritrovate nel covo di Via Gradoli non siano mai state analizzate mentre nel tempo la 18esima cassetta sarebbe scomparsa. Quasi come se questi trentasette anni fossero passati inutilmente tanto da ritenere sempre più improbabile la presenza sulla scena principale del crimine, la mattina del 16 marzo, di una motocicletta con due uomini dei servizi segreti in sella e mai chiaramente individuati (erano i due agenti del Sismi amici fidati di Carminati ?, non lo sapremo mai); un fatto inquietante che lascia trasparire un’allucinante e surreale realtà, quasi come se lo Stato stesse seguendo dall’alto di una regia occulta gli avvenimenti drammatici di Via Fani. Il “caso Moro” chiaramente occupa da quattro decenni la prima pagina di quella lunga storia che il grande giornalista Sergio Zavoli ha definito come “la notte della repubblica”. Ma qual era la situazione politica dell’epoca ? Lo ha spiegato con chiarezza l’avv. Guglielmo Scarlato l’altra sera a Padula. Bisogna ricordare che quegli anni erano caratterizzati dalla presenza sul tavolo della politica di due commensali di prima grandezza, la D.C. e il P.C.I., che da soli assommavano quasi il 70% dei consensi elettorali. Sulla base di questo dato inoppugnabile che faceva del PCI il più grande partito comunista d’occidente lo statista democristiano Aldo Moro aveva pianificato una sua personale strategia che tendeva a non escludere dai processi parlamentari e dalle riforme il PCI di Enrico Berlinguer nell’ottica di un ragionamento assolutamente nuovo per quel tempo. Moro aveva pianificato tre tappe precise per il compimento della sua strategia: governo di centro sinistra – governo con astensione del PCI – governo con partecipazione diretta del PCI. Aldo Moro non era impazzito nel proporre questo radicale cambiamento nelle linee della Democrazia Cristiana e si muoveva su due precisi elementi caratterizzanti: il compromesso storico e il migliorismo in quella che era la sua antica passione delle cosiddette “convergenze parallele” sulla base del discorso pronunciato nel Congresso Nazionale della DC tenutosi a Firenze nel 1959 quando disse che: “in tale direttrice diviene indispensabile progettare convergenze di lungo periodo con le sinistre, pur rifiutando il totalitarismo comunista”. Per propugnare la sua voglia di cambiamento e di novità le sue affermazioni, in fondo, facevano il pari con il “migliorismo” che altro non era se non una corrente politica sviluppatasi all’interno del Partito Comunista Italiano (PCI), che aveva come leader Giorgio Napolitano (in seguito Presidente della Repubblica Italiana), affiancato da Gerardo Chiaromonte ed Emanuele Macaluso. Ecco, dunque, che il “compromesso storico” (nome con cui si indica in Italia la tendenza al riavvicinamento tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista Italiano osservata negli anni settanta), che nella strategia morotea doveva rappresentare la “terza tappa” del suo progetto, riusciva a unificare sotto le stesse esigenze i venti di rinnovamento della D.C. senza sposare il totalitarismo comunista e le correnti innovatrici comuniste (migliorismo !!) tendenti ad accettare le parti meno dolorose del capitalismo. Totalitarismo e capitalismo fusi insieme, era questa la strategia del grande statista Aldo Moro; una strategia che doveva muoversi sull’onda delle convergenze parallele invise a buona parte degli esponenti della D.C. di quel tempo. Ma la terza fase era ancora da venire e quella mattina del 16 marzo 1978 il Parlamento era stato convocato per votare l’avvio della seconda fase, quella dell’astensione del PCI; un governo che per tante ragioni doveva registrare come capo il mitico Giulio Andreotti, l’unico esponente D.C. che, secondo Moro, sarebbe stato capace di addomesticare i molteplici dissensi interni e di far comprendere ed accettare la “nuova via” anche sul piano internazionale, soprattutto agli USA ed all’URSS. E proprio quella mattina il presidente Moro, non si sa per quale fatale combinazione, dopo aver perso tempo in alcune telefonate (fatte forse dopo aver letto l’inquietante titolone de “La Repubblica”) impose al suo fedelissimo maresciallo Oreste Leonardi di percorrere la via abituale per raggiungere il Parlamento, andando quindi contro il parere di Leonardi che proprio quella mattina aveva organizzato un percorso diverso. Oltretutto quella mattina era atteso (come ogni mattina) nella chiesetta di Santa Chiara dal suo confessore, mons. don Gianni Todescato, che gli aveva somministrato l’eucarestia il giorno prima (mercoledì 15 marzo 1978), ma lì non arrivò mai; non si sa se quella mattina avesse deciso di driblare anche la funzione religiosa a causa del tempo perso nelle telefonate. Insomma quello che accadde nei minuti prima delle ore 9.00 del mattino è un altro dei grandi misteri della “notte della repubblica”; non si è mai saputo perché il maresciallo Leonardi volesse proprio quella mattina cambiare percorso; il segreto lo ha portato con se per sempre nella tomba. Fatto sta che alle ore 9.02 le tre auto di Aldo Moro giunsero in Via Mario Fani e accadde la tremenda strage. Il Parlamento andò letteralmente in tilt; in fretta e furia venne data la fiducia all’ennesimo “governo Andreotti” con la DC al comando di un folto gruppo costituito dal PSI, PRI, PSDI, PLI e l’astensione dei comunisti; nelle dichiarazioni di voto dei vari gruppi parlamentari ci fu addirittura Ugo La Malfa (PRI) che chiese l’attivazione immediata della pena di morte per i terroristi. Si aprì, così, nel massimo dell’incertezza e dell’approssimazione tutta italiana, la lunga gogna dei cinquantacinque giorni (tanto durò la prigionia di Aldo Moro) che destabilizzò il Paese e causò il crollo della prima repubblica per la cui fine si dovrà comunque aspettare quindici anni per arrivare nel pieno di tangentopoli. La lunga e penosa agonia di quei 55 giorni fu caratterizzata innanzitutto dalle numerose lettere che Moro scrisse dalla prigionia e dalla lettera che il Papa indirizzò ai brigatisti. Si è dibattuto a lungo in questi 37 anni sull’autenticità delle lettere, ovvero se Moro le avesse scritte nel pieno della sua autonomia culturale e politica o se il loro contenuto fosse stato imposto dalle stesse BR. A rileggerle bene ed attentamente se ne ricava la convinzione (almeno a mio avviso) che Aldo Moro si mosse sempre con molta scaltrezza e pur essendo quasi convinto della necessità della trattativa (scambio tra lui e tredici brigatisti in carcere) riuscì a veleggiare, dall’alto del suo spessore culturale e politico, sull’onda delle sue “convergenze parallele” sia con i brigatisti che con gli esponenti dello Stato riuscendo a far capire, a prezzo della propria vita, che lui aveva già detto tutto quello che sapeva e che quello che aveva detto non era stato sufficiente a far esplodere i segreti della “notte della repubblica” e che, quindi, la missione insurrezionale portata avanti dalle BR non aveva centrato il cuore dello Stato. E fu la fine sia delle BR che della prima repubblica, ma fu anche la fine dello stesso Aldo Moro che, ritenuto ormai un soggetto inutile, venne barbaramente ucciso il 9 maggio 1978. Oltre a quelle di Aldo Moro ci furono, come detto, anche altre lettere; tra queste val bene la pena di ricordare quella scritta dal Papa Paolo VI ed indirizzata “agli uomini delle brigate rosse” il 21 aprile 78 e quella scritta dalle BR il 6 maggio 78 passata alla storia come la “lettera del gerundio”. Quella del Papa, come previsto, suscitò ammirazione, scalpore ed anche indignazione; addirittura la famiglia dello statista sostenne che allo scritto originario del Papa fossero state aggiunte due parole “senza condizioni” per evitare che lo stesso Paolo VI venisse scambiato per un sostenitore della trattativa. Ma vale la pena di riportare a stralcio un passaggio di quella lettera: “e vi prego in ginocchio, liberate l’onorevole Aldo Moro, semplicemente, senza condizioni, non tanto per motivo della mia umile e affettuosa intercessione, ma in virtù della sua dignità di comune fratello in umanità”. Quelle due parole, secondo la vedova, furono imposte al Papa direttamente dal presidente del consiglio Giulio Andreotti. La lettera delle BR, invece, diede la stura ad una ridda di interpretazioni sul quel “verbo gerundio” che non lasciava capire se Moro fosse già stato ucciso o che doveva essere ancora ucciso. La terrificante telefonata che annunciava che il corpo di Aldo Moro era stato lasciato in una Renault/4 di colore rosso in Via Caetani (a metà strada tra la sede nazionale della DC e quella del PCI) svelava non solo l’avvenuta uccisione del presidente della DC ma anche che l’ostaggio Moro non era stato mai mosso da Roma. Ironia della sorte proprio per quel terribile 9 maggio 1978 la D.C. aveva convocato la “direzione nazionale” che doveva preparare i lavori del “consiglio nazionale” così come disposto dalla prigionia, con una storica lettera, dallo stesso Moro nella qualità di presidente con all’ordine del giorno un solo punto: “trattativa o intransigenza”. Questo particolare è stato ricordato, anche con una certa commozione, dall’avv. Guglielmo Scarlato nel corso della sua “lectio-magistralis” di Padula; lo stesso Scarlato ha altresì rivelato di una sua recente conversazione con il grande giurista novantunenne “Ignazio Marcello Gallo” (già presidente dell’Accademia dei Lincei) che da tempo avrebbe sposato e fatta propria la terza spiegazione sulle lettere di Moro dalla prigionie, cioè che Aldo Moro con grande abilità era riuscito a randellare sia gli esponenti dello Stato che le B.R. in un atto di estremo sacrificio personale ma dando la possibilità a quello che rimaneva delle Istituzioni di vincere la battaglia finale. Ritornando in chiusura al Consiglio Nazionale della D.C. mai tenutosi, viene naturalmente da se che, in considerazione del fatto che gran parte degli esponenti della D.C. erano per la trattativa, quel consiglio nazionale non si doveva mai tenere perché si rischiava di far saltare veramente tutto il banco. Ed anche questo ulteriore elemento di dibattito deve essere storicamente inserito tra i misteri della “notte della repubblica” e in quel pacchetto di azioni promosse dallo Stato, con in testa lo stesso Moro, per la definitiva destabilizzazione delle Brigate Rosse per la cui resa bisognerà, però, aspettare alcuni anni e contare altri morti ammazzati e feriti vari.