SALERNO – Dopo quanto ho scritto nel precedente articolo mi tocca entrare nei meandri della sentenza n. 44/13 (n. 1089/11 r.g.n.r. – n. 151/12 r. gip) che senza alcuna esitazione definisco “una sentenza borderline” ovvero una sentenza che viaggia sulla sottile linea di confine, quasi come chi sta in una posizione di mezzo, tra due condizioni differenti: l’innocenza e la colpevolezza. Capisco sempre il difficile compito del giudice, non capisco mai la pratica del “libero convincimento” che a volte è supportato da prove concrete ma che spesso è basato soltanto su supposizioni e/o certezze personali. Per assolvere una persona il giudice deve maturare la convinzione che “al di là di ogni ragionevole dubbio” non ci siano “prove conclamate” di senso opposto; ebbene dalle 57 pagine della sentenza emergono tanti ragionevoli dubbi ma non c’è nemmeno un elemento che possa assurgere a dignità di prova conclamata e decisiva. Per questo motivo, lo dico subito a scanso di equivoci, ritengo la sentenza di Enrichetta Cioffi inattaccabile anche in appello. Il principio dell’ “al di là di ogni ragionevole dubbio“, formalmente introdotto nel nostro ordinamento dalla L. n. 46 del 2006, pur se non più accompagnato dalla regola dell’inappellabilità delle sentenze assolutorie, espunta dalla sentenza n. 36 del 2007 della Corte costituzionale, presuppone comunque che, in mancanza di elementi sopravvenuti, l’eventuale rivisitazione in senso peggiorativo compiuta in appello sullo stesso materiale probatorio già acquisito in primo grado e ivi ritenuto inidoneo a giustificare una pronuncia di colpevolezza, sia sorretta da argomenti dirimenti e tali da evidenziare oggettive carenze o insufficienze della decisione assolutoria, che deve, quindi, rivelarsi, a fronte di quella riformatrice, non più sostenibile, neppure nel senso di lasciare in piedi residui ragionevoli dubbi sull’affermazione di colpevolezza. Ma le sentenze, come ho scritto nel precedente articolo, vanno analizzate, studiate, commentate ed anche criticate senza mai abbandonare il principio che esse vanno, comunque, rispettate. La prima evidenza che vale la pena di rimarcare è lo spropositato solco tra la richiesta di condanna avanzata dalla pubblica accusa (pm Michele Sessa) con quei “nove anni e quattro mesi di reclusione” che suonano nelle orecchie dei diretti interessati come una frustata pesantissima al confronto di una “assoluzione perché il fatto non sussiste” (sentenziata dal gup Enrichetta Cioffi); al centro, ovviamente, rimane il dramma della morte del giovane Massimo Casalnuovo e l’inconsolabile dolore dei familiari e degli amici. Ma come è possibile che nell’ambito di un “delitto colposo” (di questo si tratta) analizzando le stesse dichiarazioni, sfogliando gli stessi accertamenti tecnici e peritali, raccogliendo certificati medici e relazione autoptica, un giudice si convince della colpevolezza e chiede nove anni e quattro mesi e un altro giudice ne sentenzia l’assoluzione addirittura “perché il fatto non sussiste”. La forbice è troppo ampia per non pensare ad una giustizia fatta dagli uomini in nome del popolo sotto l’influenza di comprensibili pulsioni umane; anche se, ad onor del vero, va stigmatizzato che il gup Enrichetta Cioffi nel contesto di tutta la lunga sentenza non lascia mai trasparire alcun sentimento di natura personale ed umana e si attarda in lunghe e complesse spiegazioni per allontanare, forse, proprio questo dubbio. Sullo sfondo resta, però, il solco profondo tra la richiesta dell’accusa e l’assoluzione perché il fatto non sussiste. Ma quali sono stati, dunque, “i motivi di fatto e di diritto” che hanno portato Enrichetta Cioffi alla decisione di assolvere il maresciallo Giovanni Cunsolo ? Bene, il gup a mio giudizio fa un’analisi attenta e meticolosa di tutte le attività investigative (21 atti dell’accusa e 13 atti della difesa) per arrivare, ad esempio, a non condividere l’eccezione di inutilizzabilità sollevata dal PM dell’esame testimoniale reso dal carabiniere Francesco Luca Chirichella nelle mani dell’abilissimo difensore di Cunsolo avv. Renivaldo La Greca. Il rigetto di questa eccezione, rara nel pianeta giustizia, sta a dimostrare (se ancora ce ne fosse stato bisogno) l’assoluta indipendenza del gup che si erge a “giudice terzo” tra l’accusa e la difesa nel rispetto dello spirito del nuovo codice di procedura penale. Questo fatto ci pone tutti di fronte ad un’assoluta novità giudiziaria almeno per quanto riguarda il nostro caso. In effetti riconoscere la legittimità dell’azione difensiva dell’avv. La Greca delegittima, di fatto annulla tutto quel fumus dubbioso che subito dopo l’incidente sembrava essere calato sull’Arma dei Carabinieri che da più parti veniva indicata come organizzatrice di un disegno teso alla copertura delle presunte responsabilità dell’indagato. Non è un passaggio da poco e il successo va tutto ascritto all’avvocato Renivaldo La Greca per essere riuscito a far passare, in punto di diritto, un principio democratico di grande spessore e di far riconoscere “le indagini difensive” come un esercizio democratico alla pari delle indagini della pubblica accusa. Tanto da mettere in condizione il GUP di rigettare anche le richieste della parte civile che pretendeva di risentire le persone già escusse dal PM e dalla PG; come dire che gli avvocati bravi possiamo trovarli anche in casa senza bisogno di approdare presso altri fori. Ma cosa aveva dichiarato di tanto importante e decisivo il carabiniere Chirichella ? Lo vedremo nella prossima puntata.
direttore: Aldo Bianchini