TEGGIANO – Parlare di legalitá non é impresa facile; parlare di legalitá a dei ragazzi in una scuola é cosa ancora piú ardua. La legalitá in genere non è una scienza esatta e non è, quindi, neppure materia di insegnamento; per la sua stessa genesi non può esserlo. Tanto é vero che non esiste tra quelle annoverate e conosciute come “discipline scolastiche”, anche se in molte scuole vengono messi in atto programmi e progetti specifici con attori protagonisti che spesso non sono in grado o non possono passare validi e definiti percorsi che dovrebbero portare alla legalitá. Anzi molto spesso sono proprio questi attori, protagonisti nella quotidianitá delle rispettive attivitá lavorative (forze dell’ordine, magistrati, psicologi, filosofi, ecc.), forti di un bagaglio di esperienza limitata alla pur vasta casistica personale, che portano messaggi sbagliati o di difficile presa nel distratto ascolto delle giovani generazioni piú disposte e disponibili a somatizzare non tanto le parole quanto gli esempi di vita pratica vissuta. Tutto questo perchè la legalitá, come dicevo, non é una scienza esatta facilmente riproponibile in ogni situazione e per ogni soggetto; insomma non è una scienza valida per tutte le stagioni. La legalitá in definitiva é “comportamento culturale” che discende, gioco forza, da una serie infinita di piccoli fattori che soltanto se collegati tra loro potranno dar vita a quella che gli specialisti amano chiamare la “cultura della legalitá”; e se la legalitá é un fatto culturale é altrettanto vero che questa puó essere assimilata da chiunque a patto che l’insegnamento e l’ascolto si muovano sull’unico comune denominatore ben presente nelle coscienze di ognuno di noi e che si chiama disponibilità. Scegliere tra legalità e illegalità è come sempre non un gioco ma un fatto che discende anch’esso da un percorso culturale familiare, poi possono esserci delle deviazioni, anzi ci sono certamente delle deviazioni, ma sono delle eccezioni che confermano la regola. Quanti ragazzi a scuola, per gioco più che per altro, arraffano di nascosto la colazione dell’amico; quanti dipendenti pubblici portano a casa dall’ufficio una matita, una penna, un blocco di carta; piccoli episodi quasi insignificanti. Ma queste piccole azioni di illegalità sono il primo passo verso l’illegalità vera; piccole azioni che, comunque e fortunatamente, non sfociano sempre nel baratro dell’illegalità ma restano come pietrificate nel tempo a simboleggiare quello che poteva essere e non è stato. Un po’ come “farsi uno spinello” o consumare cocaina ed eroina; sembra per tanti un passaggio quasi impossibile, che diventa un percorso obbligato per quelli che, invece, vuoi per incultura e vuoi per incapacità di frenare i propri istinti cadono nella “rete” che spesso, ai nostri tempi, è assimilabile a quella del web che, purtroppo, nessuno più riesce a controllare o a regolamentare. Qualche giorno fa nell’Istituto Scolastico Pomponio Leto di Teggiano si è parlato appunto di legalità, l’ultimo frammento di un lungo percorso; ovvero si è parlato di uno dei tanti aspetti dell’illegalità, e del rapporto tra giovani e droga. E come sta accadendo da un po’ di tempo a questa parte in quell’istituto scolastico teggianese si è riusciti a sintetizzare a meraviglia il gravissimo problema grazie all’attenta ed oculata lungimiranza del dirigente scolastico, Rocco Colombo, che dall’alto della sua perfetta conoscenza del mondo della comunicazione è riuscito a portare “alla sbarra” di tantissimi studenti due esempi clamorosi di tutto quello che ho scritto fin qui: Gennaro e Ivan, due giovani quarantenni vittime dell’uso di sostanze stupefacenti, e non solo. Non so se ci riuscirà ma Rocco Colombo, a mio avviso, sta tentando di “rivoltare come un calzino” la stessa metodologia d’insegnamento che non può rimanere ancora per molto vincolata soltanto all’apprendimento prefigurato e schematizzato da insufficienti testi scolastici; la scuola è vita presente e futura e come tale deve essere distribuita e consumata in una realtà che viaggia alla velocità della luce e che non può rimanere fossilizzata nelle stereotipate concezioni del passato. Ma ritorniamo a Gennaro e Ivan, due splendidi e drammatici esempi della mancanza di “cultura della legalità”. Il primo; Gennaro, nato e cresciuto in una famiglia criminale, vari parenti (a cominciare dal nonno ucciso dalla camorra !!) sterminati dalle guerre intestine, fino alla prima esperienza carceraria; soltanto cinque giorni che segneranno, però, la sua vita. In carcere lo vanno a prendere la mamma ed altri parenti, ed a casa viene quasi idolatrato per la sua capacità di resistere agli interrogatori senza cedere alla paura. Poi la criminalità vera, furti, violenze, uso delle armi, di tutto di più. Questi era Gennaro. Un percorso completamente diverso quello di Ivan; famiglia benestante, non gli manca nulla, forse non vive in un’atmosfera idilliaca, forse viene lasciato troppo spesso solo, forse nel suo immaginario vuole emulare quelli più grandi di lui in una periferia partenopea sempre troppo esposta ai rischi, e quasi per caso incomincia già a scuola a fare il bullo, sempre con più rabbia, quasi come una sfida al mondo intero. E cade, sprofonda, sempre di più, sempre più in fondo; fino al punto di desiderare che il funerale del fratello (morto per incidente stradale) finisca presto perché lui è atteso fuori dalla chiesa dalla folla osannante di piccoli delinquenti, in chiesa non è nessuno, fuori è il capo. Questi era Ivan. Poi piano piano, con coraggio, con fiducia in se stessi, dopo aver perso genitori mogli e figli (Gennaro arriva a dire: meno male che sono lontani da me, ma mi mancano tanto !!), cominciano entrambi un lungo, amaro e tortuoso percorso di “redenzione”; ricadono, si riprendono, ricominciano. Vengono tolte le sbarre, si aprono le porte del carcere ed entrano, finalmente, all’ICATT (Istituto a custodia attenuata per tossicodipendenti in trattamento) dove incontrano due angeli custodi: Rita Romano e Anna Garofalo. La prima, Rita, direttrice, ottima organizzatrice, temuta e amata, rispettata da tutti; la seconda, Anna, più mamma, che cerca di trasfondere “La saggezza dei nonni” (splendidamente raccontata nel suo libro) a Gennaro ed Ivan che di questa saggezza non hanno potuto usufruire nel percorso iniziale della loro vita, quando erano fanciulli in formazione e sono stati sopraffatti dalla brutale realtà dei vicoli. A Gennaro e Ivan, in definitiva, è mancato quel cosiddetto <
direttore: Aldo Bianchini
Egregio Direttore,
ho letto con piacere, oltre che con interesse, il suo articolo sull’iniziativa di Teggiano. Tale lettura mi rafforza ancora di più nella convinzione che nulla accade per caso. Anche certi incontri che, quandanche non diretti e non fisici, pongono le persone in contatto sull’onda di quelle affinità elettive che, ancora, riescono ad accomunare le persone. Come Lei sono fortemente convinta che la mafia (in tutte le sue declinazioni) è una categoria mentale che alligna ed attecchisce in ognuno di noi quando commette o anche semplicemente omette, diventando protagonista o complice di una sottocultura che indulge al pressappochismo, al qualunquismo e al menefreghismo. Tanto non solo rispetto ai “grandi temi” ma anche e soprattutto nel quotidiano, quando ognuno di noi è chiamato a spendersi, anche nel minimo, per cercare di rendere le cose più giuste, la vita più umana e magari . . . i sogni più concreti. Questo vale per ogni individuo e per ogni categoria, per quelli che fanno e per quelli che raccontano ciò che gli altri fanno. Lei ha raccontato quello che di positivo facciamo all’ICATT (realtà poco nota sul territorio), altri preferiscono raccontare il carcere solo nei suoi aspetti negativi, tralasciando ( o omettendo?) di raccontare il silenzio di una foresta che cresce nel rumore assordante di un albero che cade. Per questo La ringrazio.
Rita Romano – Direttore Casa di Reclusione – ICATT Eboli.