Il Cilento: La nostra “terra dell’osso” abbandonata e lasciata morire.

 

Da Andrea D’Ambrosio (regista)

Il cilento muore ogni giorno. Strade chiuse, frane, smottamenti,

terremoti e alluvioni. Il mio Cilento sta naufragando come le promesse

mancate di politicanti di terz’ordine che promettono l’Eden ma poi

lasciano la palude. Da anni sotto scacco dei soliti potentati locali,

una sorta di feudalesimo barocco che ormai è penetrato nel dna degli

stessi cilentani.

Le aree interne, diceva Manlio Rossi Doria, sono quelle che andrebbero

maggiormente tutelate e protette, sono lo scheletro vero del paese.

Definì alcune aree interne della Campania e dell’Appennino proprio “la

terra dell’osso”.

La nostra “terra dell’osso” della provincia di Salerno è proprio

l’area a Sud di Eboli. Dove Cristo si è fermato, ma non è più

ripartito.  Dove per ottenere i propri diritti bisogna urlare in uno

spazio vuoto. Dove si chiudono gli ospedali, dove si cercano di

insediare discariche, dove si chiudono gli uffici postali, dove i

servizi essenziali di sopravvivenza vengono barattati come patate o

funghi. Dove ancora oggi, anno del signore 2014 si muore  sulle

strade, bagnate dal sangue di chi le percorre  alla ricerca della vita

e di un futuro spezzato. Così è morta Emma giovane ambientalista che

tornava da Pollica. Da un paese che pochi anni fa è stato bagnato dal

sangue di un uomo perbene.

Dove c’è un parco del cilento che dovrebbe maggiormente tutelare il

territorio e non essere una gabbia in cui lottare per ottenere un

posto da presidente.

Chi vive nei paesi interni si sente come un cittadino di serie B,

lasciato solo, come se non fosse Campania, come se non fosse Italia.

Ognuno è migrante nella propria terra, vivendo su un barcone come i

naufraghi che dalla Libia partono per credere ancora che valga la pena

di provare a vivere. Il nostro barcone è l’inedia, l’apatia in un mare

di attese.

Io amo il cilento, amo il paese in cui sono nato, Roccadaspide, il mio

posto dell’anima, il luogo della memoria e degli affetti molti dei

quali non ci sono più. “Un paese abbarbicato sulla montagna come una

rana gigante”, lo avrebbe definito Maria Teresa di Lascia, poetessa e

attivista radicale morta prematuramente e nata in un piccolo paese

della Puglia.

  Ho una profonda rabbia per l’abbandono del territorio, per luoghi

piccoli ma indifesi come bambini al freddo. Il cilento interno è ricco

di storia, di luoghi ameni e meravigliosi, ma è in uno stato di totale

abbandono. Ci si ricorda solo d’estate della bellezza dei luoghi,

quando anche i padroni di questa regione vanno a bagnare le loro

natiche nel mare trasparente di Acciaroli o di Castellabate.

Se girassero come ho girato io questi paesi ci si renderebbe conto

della profonda dignità di contadini e gente di montagna che Nuto

Revelli definisce in un suo bellissimo romanzo “I vinti”. In quella

terra c’è il sangue dei braccianti che hanno lottato per il loro pane,

c’è il grido muto di generazioni di donne abbandonate dai mariti che

con la valigia di cartone partivano per le fabbriche del nord.  Si

sente ancora e si respira in alcune case quell’odore, quel senso di

sacrificio e di amore.

  Peppino ormai ha più di 80 anni e ogni mattina con la sua vespa va a

pascolare i propri animali in montagna. Schiena diritta, sigaretta

sulle labbra come in un quadro impressionista, non si piega mai.

Lavora e ama la sua terra. Il cilento è questo. Un vecchio che non si

stanca mai. Perché la terra lo nutre. Quella stessa terra che gli ha

dato la vita.

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