Centrale: una risposta ai sindacati.

Renato Messina

renatomessina87@gmail.com

Quando le tre principali sigle sindacali scrivono un appello unitario è sicuramente il caso di porre attenzione alla questione. È quello che è avvenuto ultimamente in merito alla privatizzazione della Centrale del Latte, con una lettera dei sindacati rivolta alla cittadinanza locale per invitarla a prendere posizione in difesa della natura pubblica dell’azienda. La posizione dei sindacati si allinea, come raramente succede, a quella del centrodestra locale, creando un fronte trasversale stile “larghe intese”. L’appello comincia ricordando come gli utili dell’azienda abbiano nel tempo contribuito alla collettività ed addirittura alle categorie più deboli. L’affermazione è quantomeno imprecisa in quanto quei soldi sono finiti sempre nel calderone delle casse comunali, senza nessun preciso vincolo di utilizzo; dire che hanno avuto fini sociali è più retorica che storia. La lettera dedica un’ampia parte ai vantaggi che la Centrale del Latte porta come indotto economico nel contesto locale. I sindacati parlano del settore zootecnico, delle 600 famiglie e dei 180 allevatori, sostenendo che il pericolo della delocalizzazione sia particolarmente realistico in quanto l’impianto di Fuorni è di dimensioni ridotte ed esista la possibilità di approvvigionarsi da altri produttori diversi da quelli locali; CGIL, CISL e UIL parlano esplicitamente di “diseconomie di scala”. Questo punto è particolarmente importante perché mette in luce la perversione del sistema che si viene a creare intorno alle aziende pubbliche. Se l’analisi dei sindacati fosse corretta e ci fossero in realtà tutti questi costi, significherebbe che proprio la gestione pubblica sia responsabile dell’aver creato un indotto ed un mercato che in teoria non dovrebbero esistere; significherebbe paradossalmente che Centrale del Latte avrebbe potuto fare utili molto maggiori, magari reinvestirli e diventare più grande. Significherebbe anche che i salernitani hanno pagato il latte più di quello che avrebbero dovuto. Così semplice? No, le cose umane non sono mai così semplici, bianche o nere. Il grigio, nel caso di Centrale del Latte, sta nel fatto che da un lato l’azienda va bene ma, dall’altro, il fatto che si rifornisca da aziende locali non può essere usato come motivo per farla rimanere pubblica. Il nodo cruciale è infatti che non deve essere il Comune a stabilire da chi un’azienda si debba rifornire; così come non deve essere il Comune a gestire un azienda che non ha alcuna rilevanza pubblica perché non fornisce alcun bene o servizio pubblico. Il municipio è un ente politico e fa politica, non ha nessun incentivo a fare affari anzi, fa politica anche quando non vorrebbe farla. E tutto ciò è assolutamente comprensibile e normale. Ciò che hanno scritto i sindacati è la candida richiesta alla politica di agire a fini clientelari: ovvero eliminare ogni minimo rischio imminente per l’indotto, tanto gli eventuali costi non si pagano subito. Il problema è che non si deve speculare sulla paura delle persone legate all’indotto, si deve essere invece trasparenti. Garantire lo status quo non significa garantire automaticamente tranquillità all’indotto ed ai lavoratori. Difenderlo a tutti i costi espone l’indotto stesso alla narcotizzazione dagli stimoli a migliorarsi e dagli incentivi a innovare. Limitare Centrale del Latte a rifornirsi dall’indotto locale potrebbe significare fare del male alla Centrale stessa (lo lasciano intendere i sindacati stessi nell’appello). La limitazione degli stimoli, l’obbligare a costi più alti ed il creare una vera e propria dipendenza, dietro la scusa della garanzia dell’indotto e dei livelli occupazionali, sono rischi altissimi nel lungo periodo. Dire queste cose non significa disinteressarsi di tutti questi lavoratori, ma solo leggere onestamente la questione e valutarne tutti i pro e contro. Nessuno propone loro questo punto di vista, paradossalmente neanche l’amministrazione che ha dato inizio alla privatizzazione, in quanto ben lontana dall’avere a cuore le tasche dei salernitani e tutto l’arco di vita dell’azienda. Quello che i sindacati chiedono può sembrare opportuno oggi, ma potrebbe essere la causa del disastro domani (a spese dei cittadini salernitani, CSTP docet). Il principio di fondo è che un comune che detiene un’azienda distribuisce a pioggia su tutti i cittadini il rischio di fallimento, a fronte di un bene non essenziale e di introiti poco rilevanti per le dimensioni della città. Luigi Zingales nel suo ultimo libro fa un esempio illuminante e cita un cartello istallato nel Grand Canyon che dice di non dare da mangiare agli animali perché rischierebbero di perdere la capacità di procurarselo da soli. L’economista dice poi che “se la questione fosse stata demandata agli animali, la maggior parte di loro avrebbe forse preferito non esporre alcun cartello: meglio approfittare della generosità dei turisti e tanti saluti alla sopravvivenza della specie”. Questo è il rischio del quale tutti i lavoratori e tutto l’indotto devono essere coscienti; è il rischio di continuare ad avere un municipio imprenditore. Infine un domanda sulla prospettiva del famoso “polo agroalimentare”; nell’idea dei sindacati chi lo dovrebbe fare? Il Comune?

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *