SALERNO – Prima d’ora non mi era mai capitato di dover patire alcuni stati d’animo nel leggere un libro, anzi un romanzo, il romanzo di Barbara D’Alto, una scrittrice certamente di grande spessore, non so se di altrettanto successo. Dove il successo si misura soltanto contando il numero delle copie vendute il romanzo di Barbara, perché di romanzo si tratta, scompare sicuramente dal novero di quelli più venduti e, quindi, dalle top ten nazionali. Ma questo, credo fermamente, per la D’Alto non conta o conti talmente tanto poco fino al punto da far apparire le classifiche soltanto un mero e squallido strumento commerciale. La scrittura, invece, quella libera, spontanea e naturale non può mai essere mercificata ed esposta in un postribolo senza senso e senza tempo. Barbara D’Alto è una scrittrice a 360° perché fa vivere, anzi fa addirittura vedere, le storie che racconta in romanzi che sono già stupende sceneggiature; storie che, seppur create dalla sua fervida immaginazione, hanno delle verità comuni ed assolute ed a tratti, solo a tratti, raccontano anche una piccolissima parte della sua vita. Dicevo in apertura che leggendo il romanzo “La stanza delle mele” (Editore Guida) ho patito e sofferto alcuni stati d’animo molto importanti. In primo luogo la rabbia di non poter leggere tutto d’un fiato il romanzo; il mestiere di giornalista e i vari impegni di vita quotidiana mi hanno condizionato al punto che nei tre-quattro giorni impiegati per la lettura sono stato spesso preso dall’ansia di leggere, perché il racconto di quel romanzo mi ha portato lontano scaraventandomi negli anni della mia infanzia vissuta a Muro Lucano, a pochi chilometri dalla famigerata “Galleria delle Armi”, dove mio padre Giuseppe (giovane ferroviere) arrivò dalla stazione di Bella-Muro nella prima mattinata del 3 marzo 1944 alla ricerca dello scomparso “treno 8017”. In secondo luogo l’ansia di sapere, di conoscere, di scoprire passo dopo passo l’evoluzione della storia magnificamente romanzata partendo anche dalla “mia stanza delle mele” quella che avevo in paese e quella in cui raramente entravo per gli stessi inconsci timori della scrittrice; una stanza che io avevo visto e catalogato sempre come “una cella infinita che rappresenta il tutto da cui non si può fuggire”. Ho utilizzato le parole con le quali la D’Alto descrive la sua stanza delle mele; parole che, in un certo senso, mi hanno impressionato ed hanno inevitabilmente segnato questo mio commento. Mi sono chiesto quanto c’è di personale, cioè dell’autrice, nel romanzo: poco, troppo o niente ? Ho riflettuto molto prima di dare e di darmi una risposta. Probabilmente poco, ma quel tanto che basta a rendere intrigante ed appetitosa tutta la storia, perché non c’è niente di più interessante della storia personale di uno scrittore (meglio ancora se scrittrice !!) tradotta in romanzo. E nella fattispecie la scrittrice lo sa benissimo e conosce a fondo anche gli anfratti più profondi e inesplorati dell’essere e dell’animo umano; difatti lungo tutto il dipanarsi delle 143 pagine del romanzo Barbara D’Alto appare e scompare, a tratti si nasconde, poi gioca a rimpiattino con l’anonimo lettore nel dire e nel non dire, nel far immaginare e nello stroncare rapidamente, ma a volte mette chiaramente in luce anche la sua stessa paura, il suo intimo timore di mostrarsi troppo, di svelare particolari della sua vita che devono rimanere dentro di lei per sempre. E’ proprio in questo gioco di sussurri, di parole, di frasi, di salti nel <<tempo senza tempo>> che emerge tutto il talento della scrittrice. Si infila, quasi si intrufola nello scialle della neonata Marzia per riproporre la sua esperienza dei bombardamenti albanesi che lei stessa ha vissuto in prima persona mentre la “sua vera mamma” la trascinava lontana dal pericolo. Con la stessa armonia di linguaggio letterario fa raccontare a Costa-Marzia “del vago ricordo del padre, giovane e sfortunato” morto realmente tra le sue braccia di bambina febbricitante e inconsapevole. Anche lo sradicamento dalla realtà rurale e contadina, in cui la crudezza di “Tuttapposto” non è la voce dello <<scemo del villaggio>> ma la voce della coscienza di tutti, appare come la rappresentazione forse un po’ forzata e romanzata di una situazione di fatto immutata e immutabile per intere generazioni e che la protagonista riesce a stravolgere, e non solo con la sua immaginazione. Una realtà, il sud, dalla quale si deve fuggire per andare verso il nord. E se nel romanzo il sud è Trifugati e il nord un paesino del milanese o del bergamasco, nella realtà il sud potrebbe essere Monteforte C. o Monte S.G. e il nord anche e solo Salerno. Per la scrittrice questo conta davvero poco, è l’immaginazione e la forza del pensiero che deve provocare lo sradicamento dalle vecchie e decrepite convinzioni e convenzioni di vita scritte soltanto al maschile. Per lei, con la forza di queste convinzioni, vivere a Monteforte o a Monte San Giacomo o anche solo a Salerno è come vivere al nord; in forza di tale bagaglio personale è stata certamente protagonista in questo territorio di una trasformazione culturale senza precedenti. Altro che movimento femminista; l’autrice attraverso il suo romanzo e la sua storia romanzata (molto romanzata per farla anche essere, e non soltanto apparire, lontanissima dalla sua storia personale) cerca di dare tutte le indicazioni possibili per un completo riscatto non solo di una realtà socio-economico-culturale di un intero territorio ma anche, se non soprattutto, del ruolo della donna. E lo fa, ripeto, infilandosi abilmente nello scialle della piccola Marzia, salvata da quel treno maledetto dalle bianche braccia della sua vera mamma (infermiera come nel romanzo !!), per accompagnarla attraverso la “stanza delle mele”, e dei sospiranti chiacchiericci da essa provenienti, in tante altre storie simili a tantissimi altri casi realmente accaduti e ricostruiti a mosaico tra immaginazione e realtà. E’ qui che la scrittrice racconta se stessa quando, appena neonata, passa dalle mani della mamma in mani sconosciute per essere salvata dalle bombe come Marzia viene salvata dai gas venefici del treno 8017. Ma l’autrice molto abilmente non disdegna le antiche tradizioni, sa che il buono del vecchio deve essere trasferito nella costruzione del nuovo, un passaggio che trova la sua sublimazione nelle mele che dalle mani di Olimpia passano nelle sue con tutta una suggestione particolare di antichi e ineludibili ricordi; forse proprio in questo semplice gesto sta l’enorme ed epocale rivoluzione. Insomma una perfetta congiunzione, probabilmente di natura astrale, tra passato, presente e futuro. Secondo il mio opinabile giudizio è questa la chiave di lettura del romanzo, la D’Alto in definitiva scrive per lanciare dei precisi messaggi e per aprire se stessa quel tanto che basta a rendere più intrigante la storia che è e rimane romanzata. Del treno 8017, delle tragedie in esso vissute e consumatesi, all’autrice forse interessa ben poco anche se per raccontarle le ha rivissute con grande sofferenza; ha capito con grande apertura mentale e culturale che quelle storie potevano essere utili a rappresentare il suo pensiero. Da qui il successo del romanzo, il successo vero, quello che non si conta sulla base del numero delle copie vendute.
direttore: Aldo Bianchini
Bello
Dire BELLO è dire niente.
Quel che meraviglia è che la gente non legge.
La STANZA DELLE MELE non si legge, si vede.
E questo non stupisce chi conosce la GRANDE SCRITTRICE, chiusa nella sua stanza, all’ombra del CARRUBO LUNATO!