Maria Chiara Rizzo
Nato per far fronte alla crisi alimentare che dal 2008 ha segnato fortemente alcuni Paesi, il land grabbing si configura come una nuova forma di investimento in appezzamenti di terreno soprattutto in Africa, America Latina e sud-est asiatico. Considerata da alcuni un’opportunità di sviluppo, la nuova formula ha diverse sfaccettature, molti vantaggi, ma anche molti rischi, mettendo ancora più a repentaglio il soddisfacimento del fabbisogno alimentare delle future generazioni. In sostanza, si tratta di un sistema che consente l’ acquisizione da parte degli Stati investitori di terre coltivabili in altri Paesi, destinate alla produzione di beni alimentari e, in molti altri casi, di agro-carburanti. Questa nuova forma di “colonialismo” è caratterizzata da una novità inaspettata: i maggiori investitori sono Paesi che in passato sono stati vittime di appropriazioni di aree. Oggi i principali acquirenti sono Cina, India, Corea del Sud e Paesi del Golfo Persico, mentre i destinatari degli investimenti sono Paesi che vantano estesi territori da poter mettere a coltura e abbondanza di risorse idriche, nonché manodopera a basso costo. Tra questi ultimi figurano Etiopia, Mali, Sudan, Ghana e Madagascar per il continente africano, Laos, Cambogia, Indonesia, Filippine e Malesia per il sud-est asiatico e Brasile per l’America Latina. Spesso gli Stati destinatari degli investimenti in agricoltura vedono di buon occhio la possibilità di “cedere” l’utilizzo della propria terra, valutando positivamente le ricadute immediate, quali la creazione di nuovi posti di lavoro e l’introduzione di strumenti tecnologici. Completamente ignorato, invece, sembra l’impatto ambientale che il massiccio sfruttamento di terreni e soprattutto di risorse idriche può severamente provocare. Nonostante ciò, parecchi Paesi destinatari di investimenti si stanno attrezzando ad introdurre normative morbide, che favoriscano la nascita dei suddetti contratti di acquisizione, snellendo la burocrazia interna e riducendo i dazi. I Paesi delle sponde sud ed est del Mediterraneo stanno iniziando a comparire nella lista degli investitori, con l’obiettivo primario di ridurre il grave deficit alimentare: Egitto e Giordania sono due stati rappresentativi, le cui politiche devono fare i conti con una popolazione in crescita a tassi elevati. Libia, Arabia Saudita, Kuwait ed Emirati Arabi sono i principali protagonisti di questi investimenti soprattutto in Sudan, Etiopia e Filippine. Anche Israele fa la sua parte, ma con lo scopo di aumentare gli agro-carburanti per garantire la sicurezza energetica al Paese.