Maria Chiara Rizzo
QATAR – Dopo un lungo viaggio nelle prime ore del mattino sono arrivata all’aeroporto internazionale di Doha. Forse ero l’unica donna sola, almeno non ne ho visto altre se non qualcuna accompagnata. Al primo sportello che ti apre le porte al paese sedeva un qatarino con il suo tradizionale abito bianco che, sfogliando le pagine del passaporto, mi ha rivolto alcune domande e dopo pochi minuti ha apposto il timbro del visto su una nuova pagina. Alle due di notte l’aeroporto è semideserto, ma fuori un stuolo di tassisti è pronto a circondarmi e cercare di farmi salire sul suo taxi. Una volta arrivata in hotel mi ha accolto lo staff composto solo da asiatici. Non c’era ombra di arabi e l’unica lingua di comunicazione è l’inglese. Il giorno successivo mi sono resa conto che nessun qatarino avrebbe svolto mansioni così normali. L’hotel non era un quattro stelle, ma poteva andar bene per un breve soggiorno. Sebbene nel cuore della notte, la curiosità mi ha spinto ad affacciarmi alla finestra della mia camera e ciò che ho visto è la prima immagine di Doha che mi torna alla mente continuamente: uno squallido “campo” di lavoratori, immerso nei rifiuti e coperto dalla polvere di sabbia che si alza con le folate di vento. Nei giorni successivi le mie supposizioni hanno trovato conferma: al lusso e allo sfarzo architettonico della città si contrappone lo squallore degli ambienti destinati esclusivamente ai cosiddetti workers, l’ultimo strato della gerarchia sociale del paese, considerato manodopera da spremere come un limone e da sfruttare fino alle ore calde della mattina, quando il termometro segnala oltre 40 gradi. Sembra strano che in una città che si candida ad ospitare eventi internazionali, che cerca di decollare nell’attesa di soffiare il ruolo all’imponente Dubai, la società viva in rigide caste, in cui i nazionali, il top della gerarchia, rappresentino solo il 20% della popolazione. Infatti, attualmente circa il 60% degli abitanti del piccolo emirato del Golfo è composta da indiani, nepalesi, filippini e srilankesi. Nessuno di loro occupa posti di rilievo, anzi molti di loro sono impiegati nel settore delle costruzioni- particolarmente attivo negli ultimi anni e finanziato dai proventi del petrolio-. Il personale straniero viene reclutato secondo il sistema della kefala e costretto a condizioni di vita e di lavoro disumane. Il Kafil è un cittadino del Golfo incaricato di gestire il reclutamento del personale e non solo, poiché rappresenta il supervisore che “amministra” la vita del lavoratore per tutto il periodo della permanenza di quest’ultimo nel paese. Succede spessissimo che il Kafil commette abusi, sottraendo, per vari motivi, il passaporto all’immigrato ed esercitando il completo controllo sul lavoratore, fino alla libertà di movimento. Fino ai primi anni ’90 i lavoratori immigrati erano per lo più arabi, ma poi il paese ha iniziato a importare manodopera da altre regioni. Una delle ragioni di questo cambiamento è stata la politica di limitazione dei flussi provenienti da Yemen, Sudan, Palestina e Giordania, Paesi che durante la crisi del 1990, non si schierarono a favore del Kuwait. Successivamente la scelta di ridurre la presenza di lavoratori arabi a vantaggio di manovalanza asiatica è stata ponderata in base a rischi effettivi di destabilizzazione politica per la consistente comunità di fratelli musulmani: le idee di panarabismo, l’opposizione di molti giovani all’imposizione da parte dell’Occidente dei confini di alcuni Paesi arabi e la diffusione del radicalismo islamico rappresentavano una seria minaccia. Oggi gli arabi presenti nel Paese, circa il 20% della popolazione, si trova a occupare il terzo gradino della gerarchia sociale, dopo i qatarini e gli europei. Le ragioni sono molteplici: temuti in quanto arabi, accomunati ai locali da lingua e religione, potrebbero esercitare pressioni per maggiori riconoscimenti di diritti in virtù della fratellanza musulmana, col rischio di mettere in bilico l’assetto politico dell’emirato. L’obiettivo del sistema della gerarchizzazione sociale , insomma, è il controllo capillare della forza lavoro e , in generale, dei flussi migratori entranti nel territorio nazionale. La kefala, dai risvolti di carattere tirannico, è un pratica disumana legalizzata: il reclutamento vincola il lavoratore quasi a mo’ di servo, stabilendo una sorta di vincolo padronale.