AMBASCIATOR NON PORTA PENE,…ANZI SI’!

 

di Michele Ingenito

 L’arresto dell’Ambasciatore italiano in India Daniele Mancini è nell’aria. Quanto meno in quella indiana. Il 2 aprile prossimo scade, infatti, il termine del permesso concesso ai nostri due marò Massimiliano La Torre e Salvatore Girone per il loro del tutto ipotetico rientro in India. Rientrati per la seconda volta in Italia nel giro di pochi mesi, questa volta per consentire loro di votare alle recenti elezioni politiche, entrambi sono accusati di avere ucciso due pescatori di quel Paese confusi per pirati. E, per tale motivo, devono rispondere dinanzi alla giustizia indiana dell’accusa di omicidio. Reato che, in India, prevede la pena i morte. Per tale motivo la Farnesina, e per essa il governo del nostro Paese, ne ha disposto il blocco. In India non si torna più. Confessiamo che, quando la notizia è apparsa per la prima volta, abbiamo pensato ad un salomonico accordo sottobanco tra le due diplomazie per chiudere definitivamente la questione. Uno di quei tanti inciuci sottobanco cui la diplomazia internazionale è costretta spesso a ricorrere allorquando, come nel caso di specie, è impossibile diramare la querelle alla luce del sole, se non creando malumori, dissensi, ribellioni tra la gente. Bisogna, allora, in quei casi specifici, dare una botta al cerchio ed una alla botte, pur di salvare a tutti i costi un determinato obiettivo impossibile da raggiungere a carte scoperte. Anche a costo di rovinare le apparenze, pur di salvare la sostanza (e non viceversa). Cioè, l’obiettivo reale. Che, nel caso di specie, significa mettere al riparo i due protagonisti dal concreto rischio di finire sulla forca. Alla concordata ‘intemperanza’ diplomatica – meglio dire compromesso non esplicitamente concordato – ne sarebbe tutto al più seguita una ovvia rimostranza ufficiale; né più né o che urla pilotate ad effetto per soddisfare l’opinione pubblica indiana e chiudere definitivamente una partita che, ove proseguita giudiziariamente, avrebbe potuto avere conseguenze imprevedibili nei rapporti tra i due paesi. Viaggio inutile del pensiero per una tesi rivelatasi, in realtà, totalmente infondata. L’India ha dato segnali forti e continua ad andarci giù pesante nell’indignazione politica e, soprattutto, pubblica, finora espressa. Perfino l’italiana Sonja Ghandi, Presidente del Congresso indiano, è venuta allo scoperto, accusando il proprio Paese di origine di “tradimento totalmente inaccettabile”. E ciò dopo essere stata essa stessa contestata da un leader locale del proprio partito con l’accusa di cospirazione nell’intera operazione. Per molti aspetti non sapremmo darle torto. Se, nell’immaginario collettivo fa molta presa il ‘tradimento’ della parola data, è ancor superiore l’effetto quando ciò avviene da parte dei militari, uomini di onore (pulito) per eccellenza rispetto ai comuni mortali. Certo, la questione resta di natura squisitamente diplomatica per tutti i suoi risvolti giuridico-internazionali di cui non sapremmo onestamente dar conto. Tuttavia, a caldo, e dal punto di vista della presa diretta sull’opinione pubblica italiana e, soprattutto, indiana, l’immagine che scaturisce dall’episodio in sé non è certamente favorevole, dispiace dirlo, al nostro Paese. Venire meno alla parola sottoscritta così autorevolmente in nome e per conto del governo a garanzia della presenza dei due marò sul territorio indiano suona come una schiaffo pesantissimo a quel Paese. La fuga per quanto apparente dalle responsabilità assunte a così alto livello, se legittima sotto il profilo del diritto internazionale, non sarà mai compresa fino in fondo, anzi neppure in superficie, dal popolo indiano e, quindi, dalle sue massime autorità politiche ed istituzionali sotto il profilo del rispetto dell’onore conseguente alla parola data e sottoscritta. Ratio, quindi, contro emozione. Entrambe valide, entrambe comprensibili nell’inevitabile crescendo alimentato, perché no, ad arte, da chi saprà abilmente soffiare sul fuoco dei sentimenti e delle passioni del nazionalismo. Bisogna sempre collocarsi da ambo le parti quando si esprime un commento, un’opinione. Dal punto di vista italiano c’è la volontà di far valere il giusto, giustissimo principio del giudizio in ambito nazionale allorquando episodi come quello dell’uccisione dei due pescatori indiani si sarebbero verificati in acque internazionali. Dal punto di vista indiano, invece, prevale la volontà di giudicare in base alle leggi del Paese allorquando si è convinti del contrario per un omicidio ritenuto tale contro due connazionali. Un bel problema, dunque, apparentemente senza via d’uscita. Certo, la presa di distanza dell’Unione Europea non ci favorisce in termini di immagine. Né, pare, ci siano stati attestati di solidarietà pubblici internazionali, quanto meno dai Paesi e alleati occidentali. A cominciare dagli Stati Uniti. Anche se la stessa UE ha ribadito che l’immunità diplomatica del nostro ambasciatore non si tocca. Preoccupa il futuro di questa disputa. Creare una cintura di sicurezza intorno al nostro ambasciatore è un segnale pericoloso. “Voi italiani siete venuti meno ai patti nella parola data dal vostro ambasciatore? E noi ce la prendiamo con lui!” Come a dire: “Pacta sunt servanda”! Chi viene meno alla parola data, paga! In realtà non è così. Perché che una cosa è la violazione del diritto internazionale, di cui risponde la Nazione responsabile, altro è la violazione di un affidavit sottoscritto dal nostro rappresentante diplomatico. Il che non equivale alla rinuncia alla immunità diplomatica di cui un malcapitato ambasciatore gode a titolo personale in caso di mancato rispetto dell’accordo preso. Un bel puzzle, quindi, le cui conseguenze potrebbero mettere a tappeto le relazioni tra i due Paesi. Dipende da chi e come cavalcherà la tigre del muro contro muro. Impossibile prevedere, possibile temere.

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