Da Rossana Lamberti (candidata al Senato)
ROMA – Nel 2008 Obama diventa il primo presidente nero degli USA. Certamente una vittoria degli afroamericani, ma di fatto, essa è stata il frutto, soprattutto, di una vera e propria rivoluzione nella comunicazione: gli schemi tradizionali saltano. Il messaggio elettorale viaggia per la prima volta via web in un discorso che diventa confidenziale, riservato, ma, al tempo stesso, pubblico. In un sistema parlamentare bipolare, come quello statunitense, che non ha e non prevede l’organizzazione capillare territoriale dei partiti italiani, a chi si rivolgeva il candidato Obama? Alle persone, a tanti che si accostano alla politica solamente durante i frenetici mesi delle elezioni presidenziali. Perché parlo di Obama proprio oggi? Perché tutto ciò che accade negli USA, foss’anche un battito d’ali di una farfalla, si riflette, e sempre, da noi a distanza di pochi anni. Da noi dove, nel frattempo, i circoli, le sezioni si svuotavano, lasciando pochi a contarsi e a ripetersi, quasi inebetiti, che la gente non partecipava più. Gli schemi stavano cambiando, ma non si è voluto affrontare la questione, ci si è limitati a prendere atto di ciò che accadeva sotto gli occhi di tutti. Oggi stiamo vivendo in politica una grande rivoluzione: il M5S, i suoi elettori, Grillo, cose completamente diverse l’una dall’altro, stanno occupando la nostra attenzione in maniera quasi spasmodica. Cosa è successo? Sarebbe bastato si fosse candidato Renzi al posto di Bersani per modificare il risultato di queste elezioni politiche? Assolutamente no. Renzi, e qualsiasi altro giovane, non avrebbe potuto modificare la storia del partito di questi ultimi anni, né l’impatto del M5S. Perché la causa di questa vittoria-beffa del PD viene da lontano. Sono gli schemi, le logiche del partito che non sono più al passo dei tempi. Il partito non è più il luogo dove le persone, giovani e anziani, donne e uomini, si incontrano per capire e discutere. Oggi ci si informa, forma e confronta sul web, in tempi velocissimi. Le persone hanno percepito nettamente la lontananza del partito dalla quotidianità, dal senso comune delle cose. Perché il mio partito, l’unico che ha ancora voglia e velleità di chiamarsi tale, non è riuscito a prevedere ciò che stava accadendo? Probabilmente le risposte sono diverse: il timore di non saper parlare un linguaggio diverso dal politichese; la spocchia di pretendere che le persone dovessero capire il politichese; il terrore di vedere altri potenziali competitori nel ristretto spazio, che alcuni si erano ritagliati, di visibilità politica; la certezza di essere gli unici titolari della verità, della conoscenza, della capacità interpretativa e di organizzazione; l’indomita, esasperata dichiarazione della propria indispensabilità. E così le persone si sono sentite giustamente respinte. C’è chi, risentito, si è chiuso nella propria casa, chi, arrabbiato, ha focalizzato sforzi e tempo nella protesta e nella ricerca di qualcuno che gli dicessi <sei importante, con me uno vale uno>. Nel frattempo il mio partito ha perso consensi e persone che gli avrebbero portato linfa ed entusiasmo. Renzi avrebbe cambiato il corso di questa storia? No, troppo semplicistico. La rivoluzione dei movimenti spero sbaragli i vecchi schemi, le arcaiche dialettiche, che siano travolte le stanze chiuse e si faccia politica per la strada in un bagno di umiltà senza eguali. Se cambiamento dovrà esserci che sia radicale: le mentalità che ci hanno portato ad un dinosauro di partito devono essere travolte. L’entità del cambiamento deve essere necessariamente proporzionale alla rivoluzione che stiamo vivendo. Occorre ragionare con schemi nuovi, perché non bisogna sopravvivere, ma rinascere. Questa è l’unica speranza e l’unica battaglia che resta da fare, sempre che la si voglia combattere.