Sabato 30 luglio scorso se ne è andato per sempre il giornalista Giuseppe D’Avanzo, firma di punta del quotidiano “La Repubblica”. Aveva 58 anni e un ferale infarto lo ha bloccato nel meglio della sua vita e della sua attività professionale. Aveva trattato il caso delle Escort di Giampaolo Tarantini ed aveva posto le famose dieci domande al premier Silvio Berlusconi. Da molti era considerato, per quanto attiene il mondo del giornalismo, l’anti Silvio per eccellenza. Tanto da guadagnarsi l’epiteto del Cavaliere quando davanti al Tribunale di Milano gli sibilò “Senta signor Stalin…!!”, come chiara allusione alla sua posizione di comunista-stalinista convinto. In verità non sapremo mai se era rimasto vetero-comunista o si era già votato alla nuova cultura della sinistra moderna e progressista. E’ stato autore, comunque, di grandi scoop investigativi nell’ottica di quello che dovrebbe essere sempre la vera e unica indole del giornalista di razza: andare alla ricerca delle notizie dalle quali farne scaturire delle inchieste il più possibile vicine alla verità. Ha spaziato dalla politica agli intrecci politica-malaffare, dalla cronaca nera al contrabbando internazionale di armi, dal rapimento di Abu Omar al Nigergate, dai Servizi Segreti italiani agli intrighi della CIA statunitense. Tra i suoi libri: I giorni di Gladio (scritto con Giovanni Maria Bellù), Il capo dei capi (scritto con Attilio Bolzoni) dedicato a Totò Riina, Il mercato della paura, la guerra al terrorismo islamico (scritto con Carlo Bonini), Rostagno, un delitto tra amici (scritto con Attilio Bolzoni). Walter Veltroni ha detto di lui: “Era un giornalista ed un uomo capace di indignarsi, ma trasformava questa indignazione in un lavoro sempre più scrupoloso ed esigente alla ricerca della verità”. Mi permetto sommessamente di dissentire, credo che Veltroni si riferisse al primo D’Avanzo, quello delle grandi inchieste a tutto campo, non certamente all’ultimo D’Avanzo che sembrava aver preso di mira (forse anche giustamente!!) solo e soltanto Silvio Berlusconi sull’onda di un attacco a tutto campo voluto dal gruppo editoriale da cui dipendeva. Per carità la linea editoriale va si rispettata ma non fino al punto di farne quasi una ragione di vita, questo purtroppo non paga mai. E la vita è stata durissima con Giuseppe D’Avanzo e certamente non gli ha restituito quello che lui aveva dato a tutti noi, al di là delle diverse posizioni ideologiche o giornalistiche. L’unico difetto vero che può essere attribuito a D’Avanzo non è quello della sua mania antiberlusconiana ma il fatto di aver conseguito la “laurea in filosofia” negli anni ’70 quando moltissimi dirigenti e semplici tesserati del PCI (insomma uomini del partito comunista) venivano gratificati dai vari atenei proprio con il conferimento di detta laurea. Per lui non è stata, però, una diminutio-capitis come per tanti altri, ma più semplicemente un “marchio indelebile” che su un giornalista di vaglia non dovrebbe mai essere impresso, soprattutto a livello di immaginario collettivo. Il cordoglio, comunque, è stato bipartisan: il giornalismo italiano ha veramente perso uno dei suoi pezzi pregiati.