SALERNO: la grande alluvione del 25 ottobre 1954 … la malanotte

 

Aldo Bianchini

SALERNO – L’inizio settimana, in quel lontano e tragico lunedì del 25 ottobre1954, era stato come sempre compulsivo e frenetico, come spesso accade alla ripresa del lavoro dopo una domenica di festa. Nessuno avrebbe mai potuto prevedere cosa sarebbe accaduto da lì a poche ore, anche perché nelle prime ore del giorno il sole faceva spesso capolino tra le poche nubi: ma l’incubo della “malanotte” era ormai vicino. La pioggia, inaspettata, incominciò a cadere fin dalle ore 13.00 di quel tragico lunedì.

Mio fratello Felice, primogenito di casa Bianchini, dagli inizi di settembre si era trasferito d Muro Lucano (PZ), nostro paese di nascita, nel collegio scolastico maschile “A. Genovesi” per iniziare i tre anni del liceo classico al TASSO dopo aver frequentato a Muro i due annidi ginnasio..

I NUMERI DELLA TRAGEDIA

“”Nella notte tra il 25 e il 26 ottobre caddero fino a 500 mm di pioggia in un’area ristretta tra Salerno, Vietri sul Mare e Cava dei Tirreni. In città le vittime furono oltre 100, i quartieri occidentali furono devastati. La frazione di Molina fu distrutta. Il Reginna devastò Maiori. La geografia della costa cambiò, i detriti crearono nuove spiagge. I danni furono immensi, oltre 50 miliardi di lire dell’epoca. Per serbare memoria dell’alluvione che provocò 316 morti, di cui 100 a Vietri, 10.064 senza tetto, 320 edifici distrutti e 272 danneggiati e danni per oltre 50 miliardi di lire.

 

IL LUNGO RACCONTO

Tra le grandi alluvioni d’Italia, quella di Salerno del 25-26 ottobre 1954 fu tra le più gravi in termini di perdite umane. La catastrofe fu causata da precipitazioni di portata eccezionale, il cui impatto fu talora aggravato nelle aree interessate da disboscamenti dissennati, che favorirono alcuni movimenti franosi estesi e distruttivi. Una perturbazione che già aveva causato abbondanti precipitazioni in Liguria si spostò il 25 ottobre 1954 verso il Sud della penisola, raggiungendo nel primo pomeriggio la provincia di Salerno. La pioggia cominciò a cadere con moderazione fin dalle ore 13, divenendo più intensa verso le 17. Le precipitazioni aumentarono ulteriormente di intensità nella serata, assumendo carattere di nubifragio. Il periodo in cui la pioggia cadde con maggiore intensità fu tra le 20 e le 24, ma continuò a piovere forte per tutta la notte. In meno di 24 ore caddero più di 500 mm di pioggia. Fu una “alluvione lampo”, con i fenomeni intensi estremamente localizzati e gli effetti amplificati dall’orografia, sia in termini di esaltazione delle precipitazioni per effetto stau, sia per la brevità e la elevata pendenza dei torrenti che trasportarono a valle l’acqua e il fango. Volendo paragonarlo a eventi più recenti, si osservano similitudini con l’alluvione di Giampilieri (Messina) dell’ottobre 2009. La zona maggiormente colpita fu quella della costiera amalfitana fino alla città di Salerno, e precisamente le località di Vietri sul Mare, Cava de’ Tirreni, Salerno, Maiori, Minori, Tramonti. Le devastazioni furono immense: frane, voragini, ponti crollati, strade e ferrovie distrutte in più punti, case spazzate via. I danni si calcolarono superiori ai 50 miliardi di lire dell’epoca. La furia delle acque causò estese frane, una delle quali, staccatasi dal pendio di un monte da poco disboscato, spazzò via il villaggio di Molina, distruggendolo completamente, ed un vicino ponte monumentale dell’acquedotto, chiamato “Ponte del Diavolo”. L’epicentro del disastro fu sui monti di Cava de’ Tirreni, da cui scendono i torrenti Bonea e Cavaiola. Dai fianchi delle montagne, infatti, i corsi d’acqua scesero impetuosi, trascinando un enorme massa di fango, detriti ed alberi abbattuti, i quali a loro volta furono catapultati violentemente sulle strade, sui ponti, sui centri abitati. Le acque si riversarono particolarmente impetuose dal monte San Liberatore che sorge tra Vietri e Salerno, che risultarono entrambe sconvolte. Il Bonea fu invece il responsabile della distruzione di Molina. Lo stesso paesaggio costiero assunse un nuovo aspetto, a causa dei detriti che fecero avanzare la linea di costa, prima lunga e stretta. Vietri prima dell’alluvione non aveva praticamente spiaggia, furono i detriti scesi durante quell’evento a crearla. Sulle principali strade vi furono profonde voragini, crolli di ponti, frane, molteplici interruzioni, mentre contemporaneamente nei centri abitati crollarono numerosi edifici e si allagarono scantinati e botteghe. A Maiori furono danneggiate le borgate alte, buona parte del centro storico ed alcuni edifici lungo il torrente Reginna il quale, ostruito dai tronchi degli alberi trascinati a valle dalle acque, erose le fondamenta dei palazzi lungo il suo corso, facendone crollare le facciate. Successivamente le case distrutte furono sostituite con palazzi moderni, quelli che attualmente caratterizzano il centro di Maiori. Nel Municipio vi è una lapide che ricorda ed elenca i nomi dei 37 morti nell’alluvione. La pioggia torrenziale provocò l’ingrossamento e lo straripamento di alcuni fiumi, a Salerno (Fusandola e Rafastia) e in provincia (Bonea, Reginna Maior, Reginna Minor), che provocarono gravissimi danni. A Salerno, le zone più colpite furono i rioni di Canalone, Annunziata, Olivieri e Calata San Vito, nella zona occidentale della città. 21 dei 107 morti non furono mai identificati. Ben 1712 famiglie persero la loro abitazione in città. In particolare, a Canalone morirono ben 41 persone. Qui il torrente Fusandola, che s’incunea nel terreno diventando un canale (da cui il nome del rione), s’ingrossò a causa della pioggia e delle frane su di esso cadute dal San Liberatore, travolgendo tutto ciò che incontrò sulla strada. La gigantesca mole di fango da qui si abbatté in Via Spinosa, dove crollarono alcuni palazzi e morirono 10 persone. Contemporaneamente, nel centro storico il Rafastia, che scorre al di sotto del manto stradale, s’ingrossò al punto da spaccare la strada (via Velia). Si creò nella zona un’enorme marea di fango, che corse in discesa per molti metri, distruggendo tutto ciò che si trovava davanti, fino a fermare la sua corsa davanti alla chiesa dell’Annunziata. Qui, i soccorritori videro uno spettacolo terrificante: un enorme ammasso di fango, alto fino alle insegne dei negozi, conteneva masserizie di ogni tipo e purtroppo numerosi cadaveri. Altri cadaveri furono ritrovati nella villa Comunale, altri ancora in mare, al largo di Santa Teresa, anche molti giorni dopo. Nel Rione Olivieri si assistette a un altro spettacolo orribile: una frana cadde dal costone roccioso e letteralmente divelse un intero palazzo (palazzo Mazzariello), che fu trascinato fino a mare. Si generò un incredibile enorme buco tra due alti palazzi, al posto del quale, prima, c’era il terzo palazzo. A Calata San Vito caddero alcune frane, provenienti dal Monte Carosello, su cui oggi sorge l’ospedale Da Procida, anche l’Irno straripò, travolgendo otto persone nel sonno. Il tutto avvenne di notte, rendendo ancora più problematici i soccorsi, che furono, in molti casi, eroici. Gli Ospedali Riuniti San Giovanni di Dio e Ruggi d’Aragona di Salerno, all’epoca ubicati in Via Vernieri, si riempirono di feriti. L’ospedale si rivelò incapace di accogliere tutte le richieste sopraggiunte e fu proprio in quella circostanza che, per la prima volta, si ventilò l’ipotesi di creare un nuovo nosocomio a Salerno. I tempi burocratici fecero però slittare l’inaugurazione del nuovo ospedale di San Leonardo addirittura al 1980. Durante quella tragica notte, anche quando cominciò ad apparire evidente la gravità della situazione, la reazione delle istituzioni cittadine fu lenta a causa del fatto che Salerno era priva, in quel periodo, di una guida amministrativa. Il Consiglio Comunale era stato sciolto nel 1953 e il commissario prefettizio Lorenzo Salazar non risiedeva in città ma a Napoli. Inoltre, in Prefettura, vi era stato un cambio della guardia giusto il giorno prima dell’alluvione, con l’insediamento di Umberto Mondio.  All’indomani della tragedia, Salerno si trovò ad affrontare il grande problema dei quasi diecimila sfollati. Molte case di Canalone, del centro storico e di Calata San Vito erano completamente distrutte. Fu a questo punto che l’Italia mostrò tutto il suo buon cuore, donando molti milioni in beneficenza, in vari modi, ma soprattutto attraverso la “Catena della fraternità”, organizzata da Vittorio Veltroni, speaker televisivo, padre del noto Walter, ex sindaco di Roma e leader del PD. Nei primi giorni giunsero a Salerno materassi, coperte e viveri necessari per gli sfollati. Ma, in seguito, arrivarono molti fondi, e anche il governo, presieduto dall’onorevole Scelba, elargì numerosi contributi per la ricostruzione della città. Fu in quel momento che cominciò la costruzione della nuova Salerno, quella a est della stazione ferroviaria. Gli sfollati furono sistemati dapprima in case popolari nella zona di Santa Margherita e Pastena (case ancora oggi abitate). In seguito, attraverso l’operato del sindaco Menna, si decise di costruire interi nuovi quartieri in queste zone. Oggi la zona orientale di Salerno è la più densamente abitata della città. Tra tanti lutti e drammi vissuti in città, ricordiamo un bell’episodio: il piccolo Mario Caputo, di quindici mesi, fu ritrovato vivo e in buone condizioni di salute ben tre giorni dopo l’alluvione, era all’interno della sua culla, che galleggiava in una pozza d’acqua. Il ritrovamento destò grande gioia nella folla che vi assistette. In tutto si contarono (fra morti e dispersi) 318 vittime, 250 feriti, e oltre10.000 senzatetto. I danni superarono i 50 miliardi di lire dell’epoca. A Salerno le vittime furono 107 e circa 100 anche i feriti, a Vietri sul Mare le vittime furono oltre 100, a Cava de’ Tirreni 37, 37 come già scritto i morti anche a Maiori. Più di 6000 volontari accorsero tempestivamente sui luoghi devastati, prodigandosi insieme ai Vigili del Fuoco e ai militari negli aiuti alle popolazioni colpite. Alfonso Gatto sulle pagine del settimanale Epoca scrisse “Sono note, scritte in fretta in questa notte. Il giornale deve uscire e io sono nato a Salerno, conosco piazza Luciani e Porta Catena, quel palazzo Olivieri che dalla strada di Vietri come un piccolo grattacielo scende al mare di via Ligea: sono i luoghi del nubifragio ed erano i luoghi dell’amore, delle prime malinconiche affacciate con la testa sulle mani alla terrazza del golfo. Mi hanno telefonato molti amici. Salerno sono io, Amalfi è Afeltra intento al Corriere a pensare grandi titoli di lutto per la sua piccola repubblica…”. Sulle pagine del Corriere della Sera, infatti, l’amalfitano Gaetano Afeltra scrisse pochi giorni dopo la catastrofe: “La situazione è tragica, ma c’è una pallida luce di speranza nel cuore della gente. Della mia gente”. Per cercare di recuperare dal fango quel mondo cancellato in un attimo, la gente scavava. Non tanto per la salvezza di quel poco che aveva, ma per la memoria di quelle cose. Orio Vergani sul Corriere dell’Informazione si espresse così: “Le genti del Sud levano verso noi, dalle vecchie immagini e dalle nuove, una mano che non è mendica: che anzi è pudica e che vuole essere, semplicemente, come lo è, fraterna. Così la Stampa di Torino il 27 ottobre del 1954: “Circa trecento morti e altrettanti feriti, di cui una cinquantina gravi, sono fino alle 24 il tragico bilancio umano dell’alluvione… Gigantesche frane di migliaia e migliaia di tonnellate hanno isolato fino a questo pomeriggio alcuni dei paesi più colpiti dalla sciagura”. Il presidente della Repubblica Luigi Einaudi arrivò sul posto dopo tre giorni. L’opera di ricostruzione fu lunga e piena di problemi a causa di molti speculatori che individuarono in quell’occasione un modo per arricchirsi sulle nuove opere che avrebbero modificato intere aree. Alfonso Menna, allora funzionario comunale (divenne sindaco di Salerno due anni dopo), dirà in un’ intervista “L’alluvione di Salerno è stata una delle calamità più gravi della storia europea. La natura aveva potuto infierire sugli uomini anche perché gli uomini non avevano saputo difendersi con una lungimirante politica di tutela del territorio”. E Giorgio Amendola indicò la “lezione di Salerno” come nefasta, accusando la classe politica di aver speso a scopi elettoralistici stanziamenti ingenti che “sarebbero stati meglio impiegati per opere di difesa dei centri abitati””.

LE REAZIONI

A casa mia, a Muro Lucano, ci fu trepidazione. Le notizie arrivavano in maniera non completa; sapevamo che a mio fratello non era accaduto nulla però mancavano notizie dirette. Qualche giorno dopo il 26 di ottobre, venerdì 29, mio padre mi portò con se a Salerno. Credo fosse la prima volta in vita mia. Avevo poco più di nove anni. Arrivai con la mitica littorina alla stazione e, scese le scale, uscii in Piazza Ferrovia per imboccare Corso Vittorio Emanuele (sulla destra uscendo). Tutto mi appariva gigantesco rispetto alle misure contenute che ero abituato a vedere in paese, mi sentivo spaesato. Mi giravo a destra e sinistra per vedere i negozi sulla destra ed un palazzone enorme sulla sinistra, dove sorge il palazzo che per molti anni ha ospitato la Upim, dal cui interno provenivano latrati di cani (seppi anni dopo che il palazzo in disarmo era adibito a canile municipale). Fu la mia prima conoscenza di Salerno, un po’ tosta ma certamente da ricordare. Giungemmo nel centro storico dove aveva sede il collegio Genovesi. Per strada c’era ancora tanto fango sui lati, la vetrata che chiudeva il tetto del cortile del collegio era andata in frantumi. Il rettore chiamò mio fratello che fu abbracciato da mio padre e da me; non appariva particolarmente spaventato. Raccontò che in nottata c’era stata molta preoccupazione ma che l’unico danno all’edificio consisteva nella frantumazione dello spesso verto che copriva una parte dello scalone di accesso; nessun pericolo per gli studenti. Rimanemmo a pranzo nel collegio. Nel pomeriggio facemmo ritorno sempre in littorina a Muro Lucano.

 

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