Aldo Bianchini
SALERNO – A volte le migliori notizie da commentare si trovano relegate nelle pagine finali dei quotidiani stampati, dove è davvero difficile che un lettore normale si inoltri per capirne di più,
Esplorando quelle pagine de Il Mattino, che da qualche settimana sotto la direzione di Roberto Napoletano sta rinnovando radicalmente la sua veste grafica in positivo, mi sono imbattuto in un piccolo ma sostanzioso approfondimento, firmato da Massimo di Lauro, sulla professione dell’avvocato, o meglio su quella che fu la grande professione dell’avvocato alla luce della sua attuale incontestabile decadenza dovuta ad una serie di motivazioni che hanno preso, giorno dopo giorno, non solo nell’immaginario collettivo ma soprattutto all’interno della cerchia dell’avvocatura che troppo spesso è stata indicata alla stregua delle peggiori caste di potere.
Lo spiega ampiamente e con un corredo di valide considerazioni lo scrittore Franco Stefanoni (giornalista de il Mondo: da anni si occupa di liberi professionisti e ordini professionali, raccontandone fatti e misfatti) nel suo libro dal titolo “Il codice del potere – Avvocati d’Italia” (Zolfo Editore); lo scrittore pone in risalto e analizza l’ipotetica linea di demarcazione tra le generazioni forensi dell’anteguerra, quelle a cavallo del secondo conflitto mondiale e tutte le altre che, dopo il conflitto, hanno prima scompaginato l’assetto storico-politico delle grandi dinastie forensi e poi sono passate al contrattacco costituendo una nuova e più influente élite professionale con i mega studi associati.
Mega studi che hanno letteralmente messo all’angolo tutti coloro che, stoicamente, continuano in solitario la loro attività professionale con inevitabili cadute di immagine ed anche, purtroppo, di riconosciuta professionalità; professionalità che in assoluto non manca ma che sul piano pratico viene oscurata dalla prorompente presenza dei mega studi associati.
Del resto la ingombrante e ossessiva globalizzazione ha sciolto come neve al sole i consolidati e storici rapporti finanziari e commerciali legati alla professione in quella che il prof. Sabino Cassese (come scrive Massimo di Lauro su Il Mattino) definisce come “un diritto plurale, integrato, interconnesso, meticcio“, a designare gli intrecci e le interconnessioni fra gli ordinamenti che, abbattendo le barriere nazionali, esigono dagli stessi giuristi l’abbandono di vecchi paradigmi.
Mi fermo qui con il commento dell’articolo scoperto su Il Mattino (ediz. 4.8.24) per passare all’analisi pura e logica della “casta degli avvocati” così come appare agli occhi dell’immaginario collettivo.
Una casta ormai ridotta all’osso, innanzitutto sul piano della credibilità; gli avvocati sono moltissimi, più di quanto necessita ad un Paese civile, e per questo hanno perso punti anche sul piano della professionalità arrivando al punto da rimanere economicamente, secondo le loro denunce dei redditi, ben al di sotto di un semplice artigiano elettricista o di un artigiano pizzaiolo.
Quel paradigma che aveva contribuito a far maturare il mito della professione di avvocato da tempo non esiste, e per ritornare gli antichi fasti tutti loro dovranno rimboccarsi le maniche.
Devono farlo per quella toga che tutti amano e per la quale molti avvocati hanno dato la vita.