di Giovanni Lovito
Tra il dubbio e la paura, accresciuta anche da una frase tronca di Virgilio, Dante chiede al Maestro se abbia già fatto quel cammino. La risposta è affermativa, mentre l’attenzione dei P. viene attratta dall’apparizione delle Furie alla sommità di una torre della città di Dite. Virgilio difende il suo ‘discepolo’ dalle arti malefiche delle orribili creature mitologiche; intanto giunge un Messo celeste che apre loro le porte della città. All’interno, in diversi avelli infuocati espiano la loro pena gli epicurei, tra cui l’Imperatore Federico II di Svevia morto in fama di eretico nell’anno 1250 (Inf. X, vv. 118-120).
Lo studio di Luigi Valli (Il segreto della croce e dell’aquila nella Divina Commedia, Zanichelli, Bologna 1922) ha già dimostrato la costante simmetria vigente fra i simboli della croce e dell’aquila nella Commedia dantesca. Una simmetria che, secondo il critico, sarebbe evidente in alcuni canti e rappresenterebbe il sottile filo rosso idoneo a collegare le terzine del Poema. Nell’opera, volta alla conoscenza del sistema simmetrico delle cantiche, non solo fu messa in risalto la figura virgiliana, ma, sulle orme delle teorie divulgate da Michelangelo Caetani, venne svelata la vera identità del «Messo celeste» che nel nono canto dell’Inferno dischiude la porta della città di Dite:
Come le rane, innanzi alla nimica
biscia, per l’acqua si dileguan tutte,
fin che alla terra ciascuna s’abbica;
vid’io più di mille anime distrutte
fuggir così dinanzi ad un, che al passo
passava Stige colle piante asciutte.
Dal volto rimovea quell’aer grasso,
menando la sinistra innanzi spesso;
e sol di quell’angoscia parea lasso.
Ben m’accorsi ch’egli era da ciel messo,
e volsimi al Maestro: e quei fe’ segno
ch’io stessi cheto, ed inchinassi ad esso.
Ahi quanto mi parea pien di disdegno!
Giunse alla porta, e con una verghetta
l’aperse, ché non v’ebbe alcun ritegno [Inf. IX, vv. 76-90].
Nei versi citati (come giustamente riferì il duca sermonetano) è racchiuso uno dei pensieri simbolici più profondi e caratteristici del Sommo Poeta. La porta chiusa denota un fatto di notevole importanza: senza l’Impero nel mondo non è possibile attuare la giustizia; la soglia di Dite, quindi, non può essere dischiusa che da una virtù imperiale ovvero da Enea, «padre dell’alma Roma e di suo Impero». Un’opinione, questa, che, sebbene non abbia avuto largo consenso nell’ambito della critica dantesca, potrebbe essere chiarita e dimostrata dalle ulteriori considerazioni del Valli estratte dalla nota introduttiva allo studio citato:
«L’idea che io espongo in questo libro ha una storia. E questa storia comincia dall’anno 1852, quando Michelangelo Caetani Duca di Sermoneta pubblicò una sua nota […]. Era una nota breve […]: ma essa conteneva la prima, vera, importante scoperta compiuta nella interpretazione del Poema Sacro: la scoperta che il Messo Celeste, che schiude la porta della Città di Dite, non è affatto un angelo, come vorrebbe la comune opinione, bensì Enea: il «‘padre dell’alma Roma e di suo Impero’».
Il Caetani, dopo aver definito l’imperatore «potestà voluta da Dio» atta a salvaguardare la pace e la giustizia nel mondo, sollevò un’altra questione fondamentale: giammai l’Alighieri avrebbe potuto commettere un errore talmente grande da far discendere un’entità divina nell’Inferno, mentre Dio poteva servirsi di un messaggero «più convenevole a quel luogo e a quell’uffizio». Successivamente, rifacendosi alle teorie del Gelli, il duca evidenziava il netto contrasto vigente fra l’apparizione ‘angelica’ della palude Stigia e quella dell’Antipurgatorio; confutata, quindi, l’ipotesi dell’angelo che avrebbe spalancato la porta della città di Dite, asseriva che il messo celeste altro non può essere se non Enea. Enea già menzionato nel canto introduttivo, allorché Virgilio afferma di essere stato poeta e di aver cantato «di quel giusto / figliuol d’Anchise, che venne di Troia, / poi che ’l superbo Ilïòn fu combusto»; Enea che, annientata Troia, giunse in Italia e divenne «de’ Romani il gentil seme». È soprattutto nel secondo canto dell’Inferno che il «figliuol d’Anchise» viene ricordato come colui che «ad immortale secolo andò» e fu nel cielo designato quale ‘padre’ di Roma e dell’Impero, capostipite della città che, successivamente, sarebbe diventata il fulcro della cristianità:
Io cominciai: «Poeta che mi guidi,
guarda la mia virtù s’ell’è possente,
prima ch’all’alto passo tu mi fidi.
Tu dici che di Silvïo il parente,
corruttibile ancora, ad immortale
secolo andò, e fu sensibilmente.
Però, se l’avversario d’ogni male
cortese i fu, pensando l’alto effetto
ch’uscir dovea di lui e ’l chi e ’l quale,
non pare indegno ad omo d’intelletto;
ch’e’ fu dell’alma Roma e di suo impero
nell’empireo ciel per padre eletto:
la quale e ’l quale, a voler dir lo vero,
fu stabilita per lo loco santo
u’ siede il successor del maggior Piero.
Per questa andata onde li dai tu vanto,
intese cose che furon cagione
di sua vittoria e del papale ammanto. (…). [Inf. II, vv. 10-27].
Il Pascoli, fra le tante tesi, formulò quella per cui «il Messo celeste che apre la porta di Dite è Enea, quell’Enea che portò l’Aquila da Troia, il padre dell’alma Roma e di suo Impero». Non solo. Considerando un passo del De vulgari eloquentia, è possibile constatare quanto il Poeta aveva dichiarato in merito ad una caratteristica fondamentale degli angeli, vale a dire la scarsa loquela. Asserendo che il linguaggio è una dote propria dell’uomo, l’Alighieri dimostrò, con adeguate argomentazioni, che «soli homini datum est loqui, […]. Non angelis, non inferioribus animalibus necessarium fuit»; e ancora: «sed nequicquam datum fuisset eis; quod nempe facere Natura abhorret» [(…) solamente all’uomo fu dato il parlare […]. Certo non agli angeli, non agli animali inferiori fu necessario. Adunque sarebbe stato dato invano a costoro e la natura certamente aborrisce di fare cosa alcuna invano] [De Vulg. Eloq., I (2)]. La facoltà di parlare fu data da Dio solo agli uomini, non certo agli angeli, giacché «sarebbe stata data invano a costoro e la natura aborrisce di fare cose invano».
* * *
Dante affidò al suo Poema un grande segreto: nascose sotto il velame del suo mistico viaggio pei tre regni d’oltretomba un pensiero, che, per la sua originalità e la sua arditezza di fronte alla tradizione ortodossa della Chiesa, non poteva essere senza cautela gettato in mezzo al volgo ignorante e maligno. E la cautela, di cui Dante lo circondò, il velo, che Dante gli stese intorno, furono così densi e profondi, che Egli ne portò nella tomba la chiave. Per secoli, nessuno sospettò neppure l’esistenza di questo segreto nella Divina Commedia. […]. Finalmente, cinquecentotrentun anni dopo la morte del Poeta, un lembo del mistero fu improvvisamente squarciato, e fu, quando Michelangelo Caetani di Sermoneta scoprì che il Messo celeste, che schiude la porta della città di Dite, non è un angelo, ma è il “padre dell’alma Roma e di suo Impero”, Enea […]. Nessuno la prese sul serio: e per altri quarant’anni il Poema di Dante continuò ad essere un libro chiuso. La intuizione del Caetani fu però, quarant’anni dopo, ripresa da Giovanni Pascoli, e offrì a questi lo spunto per nuove e più ampie e più profonde scoperte.
In questo modo, nel secolo scorso, Francesco Ercole introduceva il capitolo A proposito di una recente interpretazione della Divina Commedia, sottolineando come la teoria del messo/Enea, pur costituendo un elemento distintivo del Poema, fosse stata ignorata e trascurata dalla maggior parte dei dantisti italiani. Lo storico ligure, dopo aver sottolineato la centralità dell’Impero nella Commedia, condivise pienamente la teoria del duca sermonetano in questi termini: «Sono convinto che quella scoperta di Michelangelo Caetani, che offrì al Pascoli e al Valli lo spunto per le loro scoperte ulteriori – e che andarono, in realtà, specialmente quelle del Valli, molto più in là di quanto il buon Caetani abbia potuto immaginare – è sostanzialmente esatta. Il Messo del cielo, che apre con una verghetta le porte di Dite, non è certamente un angelo: […] è senza dubbio un simbolo dell’autorità imperiale, una prefigurazione del Veltro». Lo studioso ricordava, quindi, che il vero instauratore della monarchia universale non fu tanto Augusto quanto Enea, precursore dei Romani, latore, ancor prima dell’età augustea, del vessillo dell’Aquila nell’Urbe e progenitore (designato da Dio) del popolo eletto alla conquista del mondo:
Dio, insomma, aveva da lungi preparato in Enea la fondazione dell’Impero, come in David la nascita di Cristo, facendo d’Enea e di David i capostipiti delle due stirpi elette.
È intuibile, dunque, come molti critici, erroneamente, abbiano visto nell’«inviato del cielo» un angelo e come, da sempre, sia stata confutata l’ipotesi più ragionevole e ponderata ovvero quella del messo/Enea. Una tesi, questa, avvalorata, oltre che dalla ‘verghetta’ (scettro, simbolo di autorità) di virgiliana memoria con cui viene dischiusa la porta di Dite, dall’epistola VII, nella quale il Sommo Poeta, rivolgendosi ad Arrigo VII, lo definisce Dei ministrum, romanae gloriae promotorem e, infine, agnus Dei. Uno studio completo e dettagliato della questione dovrebbe muovere dal canto VIII dell’Inferno, dal punto in cui Virgilio rassicura Dante ricordandogli che il cammino, a quel punto, sarebbe stato reso possibile dall’arrivo nella palude di un ‘tal’. Molti critici hanno identificato quest’ultimo con Dio, anche se – ci sembra lo si debba dire – si tratta di una tesi poco accettabile alla luce di un motivo fondamentale: giammai il Sommo Poeta, per indicare l’Onnipotente, avrebbe usato un termine (tal) con cui, di solito, si identificano persone comuni. Più assurda e illogica, quindi, è la tesi del messo/angelo, dato che, in primis, un angelo non stringerebbe certamente tra le mani il simbolo dell’Impero; inoltre, cosa altrettanto inconcepibile, si
sarebbe dovuto allontanare dal Limbo (dimora di Enea) per poi attraversare il precipizio infernale. L’immagine presentata dal Sommo Poeta, inoltre, induce a ritenere che il messaggero celeste, per l’aspetto e il portamento, sia un uomo: conosce bene le vie infernali, con una certa irruenza fa fuggire le anime per lo spavento, attraversa lo Stige senza bagnarsi i piedi e con la mano sinistra tenta di rimuovere la densa nebbia e il fumo esalato dal fiume. Il raffronto con alcuni versi del secondo canto del Purgatorio comprova ulteriormente quanto finora asserito, dimostrando come il «celestial nocchiero», sull’isola, si presenti in un modo completamente diverso rispetto alla ‘presunta’ figura angelica del canto infernale:
Ed ecco qual, su ’l presso del mattino,
per li grossi vapor Marte rosseggia
giù nel ponente sopra ’l suo marino;
cotal m’apparve, s’io ancor lo veggia!
un lume per lo mar venir sì ratto
che ’l muover suo nessun volar pareggia.
Dal qual com’io un poco ebbi ritratto
l’occhio, per dimandar lo Duca mio,
rividil più lucente e maggior fatto.
Poi d’ogni lato ad esso m’appario
un non sapea che bianco, e di sotto
a poco a poco un altro a lui n’uscio.
Lo mio maestro ancor non fece motto,
mentre che i primi bianchi apparser ali;
allor che ben conobbe il galeotto,
gridò: Fa’, fa’ che le ginocchia cali;
ecco l’angel di Dio, piega le mani:
oma’ vedrai di sì fatti ufficiali. [Purg. II, vv. 13-30].
Nella palude Stigia il presunto angelo appare in tutto il suo vigore corporeo, nell’assoluta oscurità, circondato da nebbia, vento e fragore; nell’Antipurgatorio, invece, si presenta alato e avvolto da una luce immensa. Sul volto luminoso risplende la beatitudine e l’occhio del P. non può sostenerne la vista da vicino. Virgilio, inoltre, dopo aver invitato il ‘discepolo’ a inginocchiarsi e pregare, gli ricorda che da quel momento in poi avrebbe incontrato «di sì fatti officiali», il che implica, senza dubbio, che fino a quel momento i due Poeti non avessero intravisto entità angeliche.
Premesso, quindi, che con il termine «cielo» (Ben m’accorsi ch’elli era da ciel messo) Dante non intese designare l’intero spazio siderale ma l’Onnipotente, l’arcano sembra essere svelato anche alla luce di alcune fondamentali argomentazioni: 1) poiché l’Impero è diretta emanazione divina, Enea, consequenzialmente, assurge a «messo celeste», simbolo dell’autorità imperiale e di Roma; 2) la volontà di Dio è il Diritto stesso, mentre l’unica autorità idonea a salvaguardarlo è l’imperatore (simbolo della sapienza) di cui l’eroe virgiliano, precursore assoluto del «popolo eletto», è il rappresentante supremo. Sulla base di tale orientamento critico, sarà possibile comprendere ciò che il Fiorentino ha voluto nascondere «sotto ’l velame de li versi strani», tenendo ben presente quanto aveva già ricordato nel De Monarchia, vale a dire che Cristo venne alla luce al tempo del «Divo Augusto» allorché, mediante l’autorità imperiale, il mondo viveva nella pace e nella tranquillità assolute sotto il governo del Caput mundi; sarà possibile, ancora, intendere il pensiero dantesco volto alla celebrazione e valorizzazione di un sistema politico che, pur fra gli innumerevoli contrasti e i dissensi della Penisola, vide nell’Urbe la capitale dell’Impero e nell’Italia la dominatrice delle Nazioni. Nessun poeta, quindi – rivalutando le opinioni del Parodi – fu per un popolo così compiutamente il suo simbolo «com’è per gli Italiani Dante». Voce sintomatica, questa, di un’ideologia prevalente nei confini italiani sin dal periodo risorgimentale, allorquando il Sommo Poeta assurse a ‘Vate supremo della Patria’ e «profeta dei nuovi destini della Nazione».