La redazione
SALERNO – Un altro dibattito sulla “giustizia” è decollato grazie agli approfondimenti partiti da questo giornale (www.ilquotidianodisalerno.it) che questa volta è incentrato sulla cosiddetta “verità fuori dal processo”.
Un argomento molto dibattuto sia nell’ambito della magistratura che dell’avvocatura con interventi di giuristi di alto livello; un argomento che ha ripreso e riportato alla ribalta in sede locale l’avv. Salvatore Memoli con l’articolo pubblicato su questo giornale il 24 febbraio scorso sotto il titolo: “La verità fuori dal processo”.
Di seguito il direttore di questo giornale, Aldo Bianchini, ha commentato il precedente articolo di Memoli con un pezzo del 27/2/24 titolato “GIUSTIZIA: l’intervento dell’avv. Memoli”.
Ed ecco che nel dibattito interviene l’avv. Giovanni Falci (penalista cassazionista) che con grinta – passione e professionalità dice la sua sulla “verità fuori dal processo”. Un intervento autorevole che, si spera, dia la stura ad altri interventi di giuristi e di esperti del mondo della giustizia come, per fare un esempio, il dr. Pietro Cusati (detto Pierino) noto giornalista – giurista anche per il suo passato di dirigente amministrativo dei Tribunali di Sala Consilina e di Lagonegro.
Ma ecco l’intervento dell’avv. G. Falci
SALERNO – Il carissimo Aldo ha sempre la capacità di stimolare riflessioni e dibattiti interessanti su temi di grande attualità e rilievo sociale; magari ce ne fossero di tanti Aldo Bianchini e comunque “meno male che Aldo c’è” come dicevano per il Cavaliere.
Per la verità, quello della giustizia, o meglio, dell’amministrazione della giustizia, non è un tema attuale; da quando sono nato sento parlare di “giustizia è malata” come dice Salvatore Memoli.
Aggiungo io, malata non per colpa di “un complesso di regole, lacci e lacciuoli, che ne impediscono il suo sano esercizio”.
Le regole sono di per sé un baluardo contro l’arbitrio e ben vengano se ostacolano abusi e imparzialità.
Del resto lo dice lo stesso Salvatore Memoli che il sistema prevede che molte indagini “dovrebbero concludersi, quando ricorrono i presupposti, con un decreto di archiviazione del magistrato e invece dell’archiviazione si corre, quasi sempre, verso la citazione a giudizio”.
Che significa questo se non che esistono le regole che non sono lacci e lacciuoli, ma che non vengono applicate correttamente?
Il problema è perciò negli uomini, non nelle norme.
E’ un magistrato che deve valutare se ricorrono i presupposti dell’archiviazione; la norma c’è, ma non ha successo.
Il punto in cui mi sento di dissentire, invece, con Salvatore Memoli è il passaggio in cui egli afferma che il processo “priva la libertà ai cittadini. Sebbene i delinquenti esistano e meritano processi severi, è altrettanto logico ritenere che ci sono tanti cittadini onesti sottoposti a ingiusti giudizi.”
IL PROCESSO NON PUÒ ESSERE SEVERO PER I DELINQUENTI.
Il processo DEVE ESSERE GIUSTO, come recita la nostra Costituzione mutuando un concetto che è nato in Europa, non deve essere SEVERO.
Si diventa delinquenti dopo che il processo ha accertato, oltre ogni ragionevole dubbio, la colpevolezza dell’imputato e lo ha condannato ad una pena che può, e a volte deve, essere severa.
Parlare di processo severo per i delinquenti significa promuovere e sostenere la teoria del “doppio binario” che è una barbarie giuridica di cui l’Europa sovente ci accusa.
Il processo DEVE essere uguale per il delinquente e per tanti cittadini onesti sottoposti a (…) giudizi che, diventano ingiusti, se praticati in dispregio di quelle regole che personalmente non ritengo legami da cui liberarmi.
L’imputato assolto non ha subito un torto; non può apriori stabilirsi l’innocenza o meno dell’accusato.
Direi, perciò, che il tema giustizia malata è camaleontico e costante, sul quale è consentito qualsiasi commento perché, la giustizia, riguarda più aspetti della vita sociale ed è vista da prospettive diverse.
Per chiarirci: la stessa sentenza è vista in modo diverso da vittima e incolpato.
Ci sarà chi dirà, rispetto a quella pronuncia, “giustizia è stata fatta” e chi invece dirà “è scandaloso che in un paese civile avvenga questo”; e parliamo della stessa sentenza.
La cosa che non ho trovato nell’articolo di Salvatore Memoli e che neanche Aldo Bianchini riprende, è una “critica sociale” di questo sistema e di questo codice.
Quello introdotto nel 1989 è un codice e un sistema per ricchi, per chi può permettersi di difendersi, è socialmente profondamente ingiusto.
Lo slogan dell’epoca era appunto “il diritto di difendersi provando”.
Questo sistema produce il fatto che se puoi permetterti economicamente una difesa efficace, avvocati di fiducia, consulenti bravi, investigatori capaci, sicuramente hai buone possibilità di vincere la causa, anzi hai più possibilità del PM.
Quindi da questo punto di vista non definirei “malcapitato indagato” chi ha “la possibilità di indagini difensive”, perchè non sono i PM che dovranno leggerle come dice Aldo, ma i giudici che dovranno utilizzarle dovranno leggerle necessariamente in virtù di una norma che è un laccio per il giudice, nel senso che lo lega a una attività che deve necessariamente fare.
C’è un articolo del codice che dice che una sentenza è nulla se non contiene “la concisa esposizione dei motivi di fatto e di diritto su cui la decisione è fondata, con l’indicazione dei risultati acquisiti e dei criteri di valutazione della prova adottati e con l’enunciazione delle ragioni per le quali il giudice ritiene non attendibili le prove contrarie (per intenderci, quelle contenute nelle indagini difensive).
Viceversa, il povero diseredato (penso ai tanti extra comunitari che affollano le nostre carceri), non avrà possibilità di successo nel processo.
Il principio della prova nella disponibilità delle parti, farà sì che il PM produrrà tutte le prove a carico, addirittura escludendo qualche barlume di prova a discarico (gli è consentito) e, senza una difesa “efficiente e concreta” come dice la CEDU, che vada a ricercare negli atti di indagine e anche in investigazioni difensive la prova a favore dell’imputato, l’imputato non avrà scampo.
Dicevo gli è consentito al Pm selezionare le prove escludendo quelle a favore dell’imputato perché quella norma a cui accennava Aldo nel suo articolo, la ricerca delle prove “anche (come prevede il nuovo codice di procedura penale del 1989) di innocenza del singolo indagato” è una norma senza sanzione processuale e quindi praticamente inutile.
Se il PM viola l’art. 358 c.p.p. non succede niente nel processo perché l’articolo non si chiude con l’inciso “se non lo fai è nulla l’indagine”.
Diciamo che è come se il PM che viola quella norma non ha indossato la cravatta che lo rende elegante, ma è comunque vestito e coperto.
E’ paradossale, ma il codice Rocco, il codice fascista, era più equilibrato da questo punto di vista sociale.
La figura del Giudice Istruttore che raccoglieva le prove nella fase della “istruttoria formale”, garantiva all’imputato, anche al più miserabile, l’acquisizione di una prova a suo vantaggio perché non operava nessuna selezione tra quelle a sostegno o meno della ipotesi accusatoria; era un Giudice e non una Parte. Prendeva tutta l’Istruttoria svolta e la consegnava al Giudice del dibattimento a cui, perciò, arrivava, se c’era, anche la prova a favore dell’imputato.
Si dirà, c’è la difesa di ufficio!
Io avrei aggiunto un aggettivo: “effettivo”: Si sarebbe, cioè, dovuto prevedere una “effettiva difesa d’ufficio” addirittura “valutando” l’attività posta in essere nel processo dall’avvocato d’ufficio.
E’ inutile prevedere una garanzia per l’imputato, addirittura accollarsene la spesa con il ricorso al gratuito patrocinio a spese dello Stato, se poi nella sostanza l’attività si riduce alla triste realtà degli “avvocati sottomessi all’inquirente ed al giudicante” che a volte sembrano elemosinare il compenso.
Altra macroscopica assurdità: perché mai l’avvocato d’ufficio deve essere “pagato” dal Giudice? Perché deve essere il Giudice a stabilire l’entità del compenso? Si dirà, perché sono soldi pubblici che si gestiscono e distribuiscono, ma questo potrebbe avvenire anche in maniera diversa, per esempio attraverso gli uffici finanziari.
Non mi sembra che sia un Giudice a stabilire il compenso di un medico all’Ospedale che pure viene pagato con soldi pubblici.
Venendo a un altro tema dell’articolo, l’”errore della politica degli anni ’80 che nel tentativo di ribaltare le posizioni di forza tra i vari poteri dello Stato mise nelle mani dei PM un potere assoluto che presto degenerò tracimando nella politica con tangentopoli come spartiacque tra il vecchio processo inquisitorio, quando la prova si formava tra le forze dell’ordine, il pm e l’ufficio istruzione; e il processo accusatorio”, mi permetto di dissentire riguardo al giudizio di “errore”.
Io ho collaborato, come oggi si direbbe “da associato” dal 1982 al 1987, dopo essere diventato procuratore legale, con il Prof. Giuseppe Gianzi che a Roma aveva lo studio a via della Conciliazione 44; lo studio VASSALLI-GIANZI-LIA, come era scritto sulla targhetta davanti la porta al terzo piano.
Conosco il codice del 1989 nella sua fase di gestazione per le discussioni che a volte sentivo in studio dalla viva voce di Giuliano Vassalli, un giurista assolutamente illuminato e un grandissimo avvocato che si era cancellato dall’Albo degli avvocati per scegliere la docenza universitaria a tempo pieno proprio per potersi dedicare alla stesura del “nuovo” codice.
Posso affermare, quindi, che quel codice non “ha spostato il nodo centrale dell’inchiesta dall’aula nelle mani dei PM destinandogli enormi poteri investigativi gratuiti”, un avvocato non avrebbe mai potuto commettere un tale errore, a maggior ragione un Avvocato con la A maiuscola come Vassalli.
La questione è lunga e articolata e mi riprometto di trattarla in seguito dando la mia visione dei fatti sulla scorta di avvenimenti che hanno negli anni distorto e alterato quello che era il migliore codice di procedura penale del mondo.
Alla prossima.