Aldo Bianchini
SALERNO – Prima di proseguire con il racconto della tangentopoli salernitana di trent’anni fa (anni 92 – 93 e 94) è giusto fare una breve riflessione sulle motivazioni e circostanze che portarono la Procura della Repubblica di Salerno (e con essa intendo complessivamente le altre tre Procure della circoscrizione giudiziaria – Nocera Inferiore, Sala Consilina e Vallo della Lucania) al centro dell’attenzione nazionale per la sua iperattività investigativa contro i reati perpetrati in danno della pubblica amministrazione (P.A.).
Difatti fu tra le primissime, forse seconda soltanto a Milano, procure italiane sia per numero dei personaggi politici, e non, raggiunti da provvedimenti restrittivi della libertà personale che per numero di processi condotti fino al termine, anche con alcuni risultati positivi come il processo madre “Fondovalle Calore Salernitano” nel contesto del quale ci furono undici patteggiamenti (tra cui quello del sen. Nicola Trotta – PSI) e almeno una ventina di condanne passate in giudicato dopo il vaglio della Cassazione.
Le ragioni di questa successo e/o di questa sovraesposizione della Procura salernitana, ovviamente, sono tante; prima fra tutte la circostanza che nella Procura di Milano aveva lavorato per alcuni anni il pm Michelangelo Russo (uno dei “tre Di Pietro di Salerno” nella fase iniziale di tangentopoli con D’Alessio e Di Nicola) e lì aveva acquisito sistemi investigativi innovativi e sbrigatività nelle procedure attraverso una perfetta conoscenza del c.p.p. (nuovo codice di procedura penale che era stato legiferato dl Parlamento nel 1989)); seconda circostanza la grande amicizia tra il pm Alfredo Greco e i procuratori anti sequestri di persona ed antiterrorismo per antonomasia Ferdinando Pomarici (il giudice che inventò il blocco dei beni delle persone rapite) e Giancarlo Caselli (il giudice che aveva catturato Renato Curcio e mandato sotto processo Giulio Andreotti); e infine l’affinità investigativa tra i pm salernitani Luigi D’Alessio e Vito Di Nicola che almeno un paio di volte in quel periodo furono ospiti dei colleghi milanesi per seminari di studi per i reati contro la P.A.; senza dimenticare la pesante presenza di Ilda Boccassini arrivata a Milano dopo la lunga collaborazione con Giovanni Falcone a Palermo, nipote del magistrato Nicola Boccassini per anni in servizio tra Salerno e Vallo della Lucania prima di cadere in disgrazia.
Tante storie, private e pubbliche, che all’epoca contribuirono alla nascita di un corposo gruppo di amici (anche i magistrati sono uomini con i loro pregi e i loro difetti, ma anche con le loro famiglie e relative amicizie e/o frequentazioni più o meno costanti e durature nel tempo; tante storie che ebbero una ben precisa “località d’incontro”: Acciaroli di Pollica.
Una località di villeggiatura nota in tutto il mondo, e non solo per la dieta mediterranea del prof. Ancel Keys e per l’assidua presenza, mai realmente provata, di Ernest Hemingway che, addirittura su quel mare di cobalto avrebbe scritto il suo capolavoro “Il vecchio e il mare” (premio nobel per la letteratura del 1954), come narra la leggenda.
Insomma una sorta di “buen retiro” tra l’hotel “L’ancora” e una villa molto particolare che fu all’origine la motivazione forse più importante della cosiddetta “calata dei magistrati milanesi” sulla splendida costa cilentana che per alcuni decenni, proprio in ragione di quella calata, è stata, non a torto, ritenuta una vera e propria barriera della legalità per la semplice ragione che in quel tratto di costa dorata è stata, negli anni 80 e 90, la meta preferita di alcuni tra i magistrati più noti del Paese. E questo nonostante in quella località avessero tentato l’assalto alcune cosche calabresi della ‘ndrangheta per i loro loschi traffici, dalla droga al commercio del pesce.
Forse è proprio in una delle tante ville con terrazze sul mare, tra chiacchiere e scambio di opinioni, che prese corpo, nella sua struttura organizzativa, la più grande azione giudiziaria che per la storia prenderà il nome di “Mani pulite”.
Cominciò per primo Ferdinando Pomarici, pm milanese esperto nella lotta al terrorismo e, soprattutto, nell’azione della giustizia contro gli spregevoli rapimenti di persone da parte della malavita organizzata:
- Ferdinando Pomarici:
E’ stato uno dei ‘magistrati con la pistola’, come si usava dire negli anni settanta quando Milano, la Milano degli imprenditori, delle eredità, del potere economico, venne attaccata nei suoi affetti e nel portafoglio dall’Anonima Sequestri, e cioè dai clan siciliani (i primi a organizzarsi, agli ordini di Luciano Leggio detto Liggio), seguiti da ‘ndrangheta e dai banditi sardi.
Il blocco dei beni. In realtà, il magistrato Ferdinando Pomarici non usava la pistola, ed era sbagliato definirlo così, e non sparava proiettili: resta nella storia giudiziaria-criminale perché inventò uno strumento inedito: “il blocco dei beni“, e cioè s’impediva alla famiglia delle vittime del sequestro di trattare con i telefonisti delle bande e di disporre dei soldi per pagare il riscatto. L’idea, sviluppata a Milano, diventò legge dello Stato.
Antiterrorismo. Era quello uno Stato che diceva “no alle trattative” e che fronteggiava numerosi nemici interni, e questa “linea della fermezza” venne seguita anche per quanto riguardava il terrorismo rosso e nero, che vide Pomarici, insieme ad Armando Spataro, Corrado Carnevali, Maria Luisa Dameno e altri in trincea. Può essere definito “un duro“, certamente un magistrato che difende, senza smussare qualche spigolo, la linea della legalità. L’ha fatto, appunto, contro le mafie e contro il terrorismo. Ha sostenuto l’accusa contro Adriano Sofri e altri tre membri di Lotta Continua per l’omicidio del commissario Luigi Calabresi (1972). E ha seguito tutta la prima fase delle indagini sulla strage mafiosa di via Palestro a Milano (1993), diventando anche il delegato della procura distrettuale antimafia per otto anni, sostituito nel ruolo da Ilda Boccassini.
Abu Omar. Sua ultima celebre inchiesta, quella condotta con Spataro sul rapimento di Abu Omar, prelevato nel quartiere Bovisa di Milano da uomini della Cia e del servizio segreto guidato dal generale Nicolò Pollari, che invano i pm milanesi hanno cercato di far processare. Sono state sue le indagini che hanno evidenziato la sorprendente collaborazione di alcuni giornalisti con gli 007 italiani in funzione anti-magistrato, o anti-giornalismo d’inchiesta.
Portiere del Napoli. Nel 2007, lui, che incarnava il pubblico ministero tutto indagini e niente politica, molto legato a Francesco Saverio Borrelli e ai “vecchi” della procura, venne sconfitto alla corsa di procuratore capo di Milano da Edmondo Bruti Liberati. Rarissime le sue interviste, gli dava enorme fastidio anche l’applauso, come avveniva nella stagione di Mani Pulite, ma tutto meno che un uomo timido: secondo portiere del Napoli (in serie A), poi centravanti della nazionale magistrati, motociclista, entrava a palazzo di giustizia alla guida di una due posti, abbronzato dopo la partita di tennis. Per molti carabinieri e poliziotti di rilievo, un interlocutore importante nelle fasi più delicate delle indagini. Per i giornalisti, uno che apriva raramente la porta dell’ufficio, ma onesto nei rapporti e nei giudizi. (fonte quotidiano La Repubblica).
Non ho mai conosciuto Ferdinando Pomarici (nato a Milano nel 1942) ma capita spesso che la simpatia scatta a pelle, soprattutto nei confronti dei personaggi sovraesposti pubblicamente; e Pomarici mi è apparso sempre come un uomo nato per fare il giudice, un po’ come ho sempre visto Alfredo Greco, il magistrato salernitano che non caso e non per caso è sincero amico del milanese Pomarici.
Imponente nel fisico ed amante della motocicletta, Pomarici, amava scorazzare per ore ed ore lungo tutte le strade della “costa d’oro cilentana”, aveva sposato una ragazza di Pollica (diventata poi anche direttrice regionale dell’INAIL della Lombardia) e quindi si sentiva e si sente un uomo del posto. Dalla sua villa sui contrafforti rocciosi tra Acciaroli e Pioppi dominava tutta la zona di mare (colorato di cobalto) compresa tra punta Campanella e la piana di Ascea. Negli anni ’80 cominciò a far capolino in quella villetta un altro magistrato, Gerardo D’Ambrosio, all’epoca prima collega di Ferdinando e poi procuratore aggiunto di Milano. Con D’Ambrosio la calata dei magistrati milanesi si intensificò e ad Acciaroli arrivarono anche Gherardo Colombo, Piercamillo Davigo, Francesco Greco, Antonio Di Pietro e finanche il gip Italo Ghiti (quello che firmò l’ordine di cattura per Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, la gola profonda di tangentopoli). Insomma quel gruppo di magistrati milanesi che dal ’92 rivolterà l’Italia come un calzino si riunì (forse !!) le prime volte proprio ad Acciaroli nell’accogliente Hotel L’Ancora. E da qui che partì (sempre forse !!) la tangentopoli nazionale ed è qui che nasce la grande amicizia tra il “Tonino” nazionale e l’avvocato Giuseppe Lucibello (detto Geppino) di Vallo della Lucania, un’amicizia che darà a tangentopoli una spinta decisiva ? Difficilissimo dare un risposta compiuta e, soprattutto, provata.
Ricordo che all’epoca Geppino Lucibello, in un lungo ed appassionante editoriale su Cronache del Mezzogiorno firmato dall’avv. Diego Cacciatore, venne definito “Geppino, calimero tutto nero”, nomignolo con il quale il compianto Cacciatore voleva stigmatizzare la collaborazione di Lucibello con Di Pietro sull’onda della loro conclamata amicizia nata, probabilmente, sulle spiagge care a Keys ed Hemingway.
Si sussurra che qualche puntatina in quell’hotel la fecero anche Francesco Saverio Borrelli (capo della procura milanese) sospinto da Giancarlo Caselli (il magistrato che arrestò Renato Curcio e mise sotto processo Giulio Andreotti, già procuratore di Palermo e poi di Torino) che già allora era molto amico di Alfredo Greco.
La parte del leone, come era giusto, la faceva sempre “Tonino”, quando arrivava lui sul posto piombavano più forze dell’ordine che in tutto il Paese. Insomma quella zona di pochi chilometri quadrati sembrava davvero una torre inespugnabile. Ma ad Acciaroli, sempre nell’Hotel L’Ancora, arrivarono anche diversi magistrati salernitani (Domenico Santacroce, Anacleto Dolce, Alfredo Greco, Michelangelo Russo, Luigi D’Alessio e Vito Di Nicola) quasi come se andassero a seminari di lotta contro i reati nella pubblica amministrazione, ma soprattutto per mettere insieme quel castello di accuse incredibili e poche volte sedimentate in sentenze passate in giudicato contro i big politici locali di quegli anni.
L’Hotel L’Ancora, all’epoca, apparteneva ad una società con a capo la sig.ra Soffritti Maria Luisa, moglie dell’imprenditore vallese Alberto Schiavo. Quest’ultimo nel giro di pochi mesi, forse spaventato ed anche condizionato da una presenza così massiccia di magistrati nell’hotel della moglie e soprattutto per la vicinanza così stretta con la legalità indiscussa, decise forse di collaborare con gli inquirenti dando il via, nel maggio del ’93 (come ho scritto in un precedente capitolo), alla più grossa inchiesta giudiziaria distrettuale con la conseguente fine politica di personaggi come Gaspare Russo, Carmelo Conte e Paolo Del Mese. Per non essere frainteso ripeto il concetto già espresso di recente: per me Alberto Schiavo è stato più una vittima del sistema di potere politico-malavitoso che un carnefice. Un particolare d non sottovalutare nelle eventuali considerazioni che ogni lettore è libero di esprimere; in quel buen retiro, al di là di Angelo Vassallo e di qualche altro politico accuratamente selezionato, non entrarono mai i big della politica nostrana prima citati: Gaspare Russo, Carmelo Conte e Paolo Del Mese.
E non per caso inserisco sempre il nome di Gaspare Russo in queste vicende; in quegli anni Russo si era spostato dalle segrete stanze di Nusco direttamente nella casa bianca di Pontecagnano (regno della famiglia Del Mese) ed aveva a sorpresa spostato gli equilibri dei rapporti politica-imprenditoria tra Ciriaco De Mita, Paolo Del Mese e Carmelo Conte che proprio in quel periodo (forte del 33% dei consensi elettorali del PSI Salerno) aveva raccolto tutta l’imprenditoria possibile sotto il suo domino, anche la feccia che presto lo tradirà.
L’interesse di Gaspare Russo era chiarissimo, tanto è vero che il figlio IVO venne eletto al Parlamento nelle elezioni politiche del 5 e 6 aprile 1992 (a tangentopoli già scoppiata ma non ancora deflagrata) come deputato della Democrazia Cristiana. Un vero e proprio schifo De Mita che era in pessimi rapporti con Del Mese e non avrebbe mai penso allo scivolamento di Russo verso Pontecagnano.
La calata dei magistrati milanesi è continuata per molti anni e, forse, ancora oggi (grazie sempre a Pomarici) continua anche se in misura minore e assolutamente sotto traccia.
Immaginate quindi in quegli anni quali fossero le misure di sicurezza approntate nell’intera zona da parte delle forze dell’ordine a tutela di uomini-magistrati impegnati nella lotta contro il terrorismo e contro la cosiddetta prima repubblica.
In quel clima nacque anche l’amicizia tra Angelo Vassallo, Alfredo Greco e Gerardo D’Ambrosio, e non solo; in quel clima Vassallo si sentiva sicuro e ben protetto, quasi intoccabile, tanto da dare a tutta la sua lunga azione politico-amministrativa il marchio della legalità, della trasparenza e dell’intransigenza, fino al suo ultimo istante di vita. Sapeva bene di muoversi in un territorio che da anni veniva setacciato palmo a palmo dalle forze dell’ordine speciali ed antiterroristiche, al di là dell’inefficienza dell’Arma locale lamentata dai parenti dell’ucciso.
Inutile, però, divagare troppo con le fantasiose ricostruzioni di fatti e circostanze che ci porterebbero lontani dall’apparente casualità dell’ingorgo di magistrati; sullo sfondo rimane la realtà che in quel luogo incantato, Acciaroli, negli anni immediatamente precedenti la tangentopoli salernitana trovarono comunione di intenti la politica, la magistratura e la grande imprenditoria nella lotta finale contro la 1^ Repubblica accusata troppo frettolosamente, ed a torto, di essere stata l’unico male della corruzione dilagante e non più sopportabile.