scritto da Luigi Gravagnuolo 17 Marzo 2023
per Gente e Territorio
Dunque, tra quarti e semifinali le tre italiane della Champions si giocheranno la finale di Istanbul tra loro. Alta la probabilità che una delle tre arrivi nella capitale turca da protagonista. Solo il Benfica – un osso durissimo – potrà interdire alla Serie A l’accesso alla finale. Ma prima dovrà vedersela con l’Inter che, al di là della discontinuità in campionato, ha una rosa di primo livello ed è potenzialmente in grado di passare il turno. Se ciò fosse, in semifinale incrocerebbe o il Milan o il Napoli. Quindi, un’italiana in finale.
Tra Milan e Napoli sarà una sfida dall’esito non scontato. Sulla carta il Napoli – il mio Napoli – è favorito, venti punti di distanza in campionato la dicono lunga; e poi gli azzurri avranno due vantaggi non indifferenti, giocheranno la partita di ritorno al Maradona e hanno già chiuso i conti col campionato, possono perciò concentrarsi solo sulla Champions. Eppure ricordo bene la vittoria di quest’anno a San Siro, una partita tirata fino ai tre fischi dell’arbitro e vinta dal Napoli anche con un pizzico di buona sorte. Ora, in Champions, per dirla con Spalletti, saranno decisivi cuore, cervello e culo!
Un sospiro di sollievo possiamo comunque tirarlo, per fortuna non dovrebbero esserci scontri di piazza tra le due tifoserie, che non si detestano. Sarebbe stato diverso in caso di derby milanese Milan-Inter, ovvero di Inter-Napoli. Né i due match dell’Inter col Benfica dovrebbero comportare gravi problematiche di ordine pubblico. Insomma, alle italiane è andata di lusso anche sotto questo profilo.
A proposito dei disordini e delle violenze che si succedono in occasione delle partite di calcio è il caso di fermarsi per una riflessione non sbrigativa.
Sono solo scontri sportivi? Assolutamente no. Il calcio da sempre riflette in sé, semplificandola ed esasperandola come in vitro, la complessità della nostra società. Pensiamo alla difficile conciliazione tra globalizzazione e identità culturali locali. La globalizzazione porta con sé l’omologazione culturale, la secolarizzazione della società, la morte di Dio, di tutti gli Dei, la ripulsa dei tradizionalismi e degli etno-identitarismi, la modernizzazione soggiogata alla finanza, l’isolamento degli individui che restano senza comunità. L’identitarismo al contrario difende esattamente tutto ciò che la globalizzazione rischia di far svanire in un mondo senza colori, dove ‘tutte le vacche sono grigie’.
Emblema dell’omologazione globale sono le pay-tivvù. ‘Non ce la facciamo più, noi odiamo le pay-tivvù!’ gridano gli ultras dalle curve. Il calcio delle pay-tivvù è quello dei fondi finanziari, dei tifosi in pantofole e poltrona e ciascuno a casa sua, dei biglietti degli stadi inaccessibili al ‘popolo’, dei calciatori mercenari e senz’anima. Contro questo football si schiera il calcio degli ultras, quello identitario, quello delle comunità locali degli innumerevoli campanili d’Europa, del tifo che si riconosceva nella maglia e che ora sta scomparendo.
Nel secolo scorso, pre-globalizzato, il calcio nazionale ed europeo conviveva armonicamente con il tifo identitario. Non che non ci fossero scontri, anche violenti, tra le tifoserie, ma erano per così dire espressioni ‘spontanee’ di vicende e rancori locali. Oggi non è più così. I due football, quello globale delle pay-tivvù e quello identitario, non si parlano più ed il secondo, inevitabilmente perdente e minoritario, si fa protesta rabbiosa, ribellione organizzata.
Gli scontri di questi anni sono meticolosamente pianificati a tavolino ed annunciati tra i contendenti. Gli ultras di tutta Europa si organizzano in bande paramilitari, di quello che accade sui campi del calcio globalizzato non gliene può fregà de meno, cercano gli scontri a prescindere. Mutuano il vandalismo dei black bloc, che sono poi i veri antesignani di tutto l’antagonismo no global sparso per il mondo. I tifosi identitari rischiano a volte anche la vita per ‘difendere’ il proprio territorio: “Il tempo è passato, ma sono ancora qua… Ed oggi come allora, difendo la città!! Alè alè alè…”
Il calcio identitario, nella società secolarizzata, surroga altresì il bisogno di una fede, di un senso, una ragione per la quale vivere; senso che non si ritrova più in Dio o nella patria, valori ormai smarriti o quanto meno svaporati: “Una maglia, una fede: per te vivrò, con te sarò, finché vivrò…”
Non c’è da meravigliarsi perciò se, quando scoppiano guerre reali nella nostra Europa, molti ultras si arruolano come volontari ed indossano la divisa del proprio paese. Successe così nella guerra dei Balcani di fine secolo, con gli ultras della Stella Rossa di Belgrado e della Dinamo Zagabria in prima fila ad ammazzarsi nei due campi contrapposti. Sta succedendo ora in Ucraina, dove gli ultras dello Shakhtar Donetsk sono entrati nelle file del Battaglione Azov, così come quelli della SKA Rostov e delle squadre moscovite nelle file dei russi.
L’invisa globalizzazione, poi, in qualche modo condiziona oggi anche l’identitarismo localistico. Quello più genuino sopravvive ormai solo nelle tifoserie delle categorie inferiori. Ma se sei tifoso di una grande squadra, che si scontra con quelle delle grandi città del mondo, non riesci più a farlo da solo, hai bisogno di aggregarti ad altre tifoserie. Nascono così le alleanze ‘geopolitiche’ tra loro, nel gergo degli ultras i gemellaggi. La regola è che il nemico del mio ‘gemello’ è mio nemico e, se il mio gemello mi chiama, io sono tenuto a correre in suo aiuto.
Le partite mediaticamente più appetibili diventano così le occasioni elettive per gli scontri tra tifoserie. Si menano tra loro, ma insieme comunicano al mondo che c’è un calcio identitario che loro difendono ed uno globalizzato che combattono. I seicento ultras dell’Eintracht Francoforte arrivati mercoledì scorso a Napoli con i loro ‘gemelli’ atalantini non avevano neanche il biglietto per lo stadio. Della partita non gli interessava un bel nulla. Erano arrivati a Napoli per rinnovare gli scontri già avvenuti a Francoforte. Volevano far parlare i media della loro fede, così come lo avrebbero voluto quelli del Napoli. Per fortuna, e grazie alle forze dell’ordine, i due gruppi non sono venuti in contatto diretto.
Sarebbe interessante arricchire questa analisi con il supporto di un qualche attento storico di professione. Il grande fiume della Storia – la maiuscola è voluta – nel suo delta genera dei rivoli che sembrano fluire anche sugli spalti dei nostri stadi. Ci sarà una reminiscenza storica se gli ultras del Napoli sono gemellati con quelli della Stella Rossa di Belgrado, dello Spartak Mosca e dell’Olympiacos di Atene, oltre che del Borussia Dortmund? E quelli dell’Atalanta non sono di Bergamo, la ‘Città dei Mille’, cioè di quelli che vennero a mettere fine al Regno di Napoli? Qualcuno può rileggere le alleanze del Regno di Napoli nel XIX secolo?