Aldo Bianchini
SALERNO – Nel racconto della tangentopoli salernitana è giusto ricordare l’episodio gravissimo legato alla traduzione in un’aula di tribunale del plenipotenziario della Democrazia Cristiana, on. dr. Enzo Carra, per meglio stigmatizzare gli eccessi della gestione giudiziaria della tangentopoli nazionale fatta, come quella salernitana, essenzialmente con il terrore delle manette. Carra, riabilitato pienamente dopo alcuni anni, è morto il 2 febbraio scorso, a distanza di trent’anni dal tragico episodio che mi accingo a ricordarvi.
Era il 4 marzo del 1993, trent’anni fa, quando un incauto drappello della polizia penitenziaria tradusse in aula l’uomo ombra di Arnaldo Forlani (implicato nella maxi tangente Enimont) addirittura con gli schiavettoni ai polsi. Fu un momento drammatico che il pm Antonio Di Pietro percepì subito in tutta la sua enorme gravità e con il suo piglio aggressivo intimò ai carcerieri di liberare i polsi dell’imputato.
Troppo tardi, la foto di Carra in catene fece subito il giro del mondo ed una luce trasversalmente oscura incominciò a seminare dubbi sulla genuinità dell’azione travolgente del pool milanese che andava avanti con l’angoscioso tintinnio delle manette per indurre gli inquisiti a confessioni che poi si rivelarono indimostrabili nella maggior parte dei casi.
Enzo Carra (nato a Roma l’ 8 agosto 1943 è morto a Roma il 2 febbraio 2023, deputato dal 2001 al 2013) è stato un giornalista e politico italiano, è stato soprattutto un democratico cristiano, un uomo della prima repubblica, un forte difensore della libertà di parola; quando ricordava quella triste vicenda del 4 marzo 1993 diceva sempre: “… se riuscii a superarla fu perché, anche grazie alla violenza che mi fu riservata, il clima nel Paese cominciò a migliorare e i garantisti trovarono finalmente spazio sui media …”; al momento dell’arresto era capo ufficio stampa della DC.
La stessa cosa stava per accadere anche a Salerno qualche mese dopo; era il 5 novembre 1993 e in un’aula del nostro tribunale stava iniziando la quinta udienza del processo “Fondovalle Calore” che vedeva alla sbarra anche i “due compassi d’oro” Galdi e Amatucci che, contrariamente ai tanti altri imputati, seguirono tutte le udienze del processo che aveva alla presidenza del collegio giudicante Giovanni Pentagallo.
Raffaele Galdi (ingegnere, deceduto il 29 agosto del 1998) dopo quello del 23 luglio 1992 era stato nuovamente arrestato (sempre su richiesta di quel PM spauracchio dei socialisti) a sorpres il 29 ottobre 1993, a processo Fondovalle già cominciato, per la storia del “seminario” e delle presunte tangenti che lui, con altri, avrebbe preteso dall’impresa Francesco Zecchina; in quell’ordine di cattura c’erano anche i nomi di Gaspare Russo e Aniello Salzano (per il quale il gip non concesse l’autorizzazione).
Ebbene la mattina del 5 novembre del 1993 Galdi fu trascinato in manette per tutto il lungo corridoio del tribunale ma fortunatamente il presidente Pentagallo, allertato dal notevole trambusto creato dalle numerose telecamere presenti, guadagnò velocemente la porta laterale d’ingresso e bloccò il plotone d’esecuzione ordinando l’immediata liberazione dell’ingegnere che, così, potette entrare in aula da uomo libero per prendere posto in mezzo ai suoi due avvocati Dario Incutti e Antonio Zecca.
Fu così che Salerno venne risparmiata d un nuovo caso Carra, grazie al tempismo ed alla saggezza del giudice Giovanni Pentagallo.