scritto da Luigi Gravagnuolo il 29 Novembre 2022 per Gente e Territorio
Claudio Velardi – politico, giornalista, editore, comunicatore e lobbista a dire di se stesso – non è di quelli che hanno sempre la risposta in tasca, piuttosto è un seminatore di dubbi. Ed un istigatore di riflessioni non scontate. Ho assistito giovedì scorso 24 novembre alla presentazione del suo ultimo libro, ‘Impressioni di settembre’, per i tipi prestigiosi di Colonnese Editore. Velardi ogni giorno, dal 27 luglio al 26 settembre di quest’anno, in vista del voto politico di fine settembre, ha inviato ad una lista di duemila destinatari un suo podcast di commento allo svolgimento della campagna elettorale. Ne ha poi raccolto i testi e li ha riproposti nel volumetto di cui sopra, agile, godibile alla lettura, mai scontato.
Con l’autore ne discutevano giovedì scorso – su iniziativa dell’associazione Cava Sia di Cava de’ Tirreni, presieduta dal consigliere comunale Eugenio Canora, che ha fatto gli onori di casa – gli onorevoli Fulvio Bonavitacola, Pd, e Gigi Casciello, Azione già Forza Italia. Tutti e tre, con una lunga e prestigiosa esperienza politica alle spalle ed in corso, non nascondevano le proprie difficoltà a comprendere il mondo attuale e le dinamiche dell’opinione pubblica, bombardata da messaggi veicolati da una miriade di vettori, dai più tradizionali, quali la carta stampata e le tv, ai new media. In questa giungla mediatica sono stati stritolati i partiti, così come concepiti tra il XIX ed il XX secolo e come sono stati vissuti non solo dai discussant della serata, ma da tutti quanti hanno sentito la passione politica e l’hanno praticata fino agli inizi di questo secolo.
Che quei partiti – quelli delle sezioni, dove i gruppi dirigenti ascoltavano e si confrontavano con i militanti di base e dove venivano formati e selezionati i ‘quadri’; quelli i cui dirigenti, nel caso di contrasti interni e divergenze di orientamenti, si chiudevano nelle stanze e non ne uscivano fin quando non trovavano la mediazione accettabile per tutti; quelli dalle leadership plurali e collettive – non esistono più e che sia velleitario, oltre che malinconicamente nostalgico, tentare di riesumarli è una convinzione comune. Ma come praticare oggi una politica che sia espressione della società civile e che da essa venga riconosciuta come propria rappresentanza?
La risposta più immediata è il partito del leader, affacciatosi sulla scena italiana negli anni Ottanta e poi radicatosi negli anni novanta, anche grazie alla riforma della legge elettorale dei Comuni e delle Province con l’elezione diretta dei sindaci e dei presidenti. Il partito del leader, risposta alla degenerazione delle vecchie nomenclature della prima repubblica, per un verso soppiantò la partitocrazia, per l’altro avviò la crisi della democrazia tout court. Con l’elezione diretta dei sindaci si acuì la crisi della democrazia dei corpi intermedi a vantaggio del rapporto diretto tra il leader e gli elettori. Ma quello della stagione dei sindaci era un rapporto comunque ancora ‘mediato’; magari non più dai corpi intermedi, primi tra tutti i partiti delle sezioni, piuttosto da giornali e tivvù, ma non del tutto privo di intermediazione.
Oggi, con l’esplosione dei social, neanche il giornalismo d’antan riesce più a mettere in contatto i ceti dirigenti con il popolo. Agli occhi della gente le testate giornalistiche fanno tutt’uno con le élite politiche e finanziarie, alle quali sono accomunati in una critica radicale. La credibilità dei media tradizionali presso il ‘popolo’ è ai minimi storici. Il leader che parla attraverso i giornali e le tivvù comunica con l’élite, non col popolo, ai cui occhi sembrano piuttosto credibili i post liberamente pubblicati sui social da chiunque abbia una tastiera a disposizione. Ogni cittadino è oggi giornalista a sé stante: si fa un’opinione sul sentito dire che circola nella rete, la posta qua e là, si interfaccia con chi la intercetta – con cui condivide o litiga, spesso solo col ditone del like o del non like – ma non trova alcun luogo in cui si costruisca una sintesi condivisa. E la verità diventa una chimera.
Comprensibile ed inevitabile quindi il distacco, che è diventato un fossato ogni giorno più ampio, tra élite politica e società; come si possano riattaccare i cocci del partito delle sezioni non si riesce a vedere. I dati dell’astensione di tutti i paesi democratici dell’occidente sono eloquenti. Alle ultime elezioni per il Parlamento italiano ha votato il 63% degli aventi diritto, ed è già stato tutto grasso che cola. Alle elezioni di midterm negli USA in genere vota meno del 50% del corpo elettorale, un po’ di più per il voto per il presidente federale. Insomma il numero di persone interessate col proprio voto a concorrere alle scelte della politica nel mondo occidentale si riduce sempre di più.
Noi, uomini e donne del Novecento, siamo portati a considerare questa realtà come una iattura, un grave problema da affrontare: quel fossato tra élite e popolo va colmato altrimenti la democrazia muore, ci diciamo senza riuscire ad andare oltre. Ed è pur vero che la democrazia così come formatasi in Occidente tra la fine del XVII secolo e la seconda metà del Novecento se non è morta, di certo non se la passa bene.
Le ricette ‘terapeutiche’ per salvare la democrazia che circolano tra la gente e gli studiosi sono le più variegate, dal populismo che vorrebbe eliminare il fossato semplicemente sopprimendo le élite, salvo poi riconoscersi incapace di garantire un governo al popolo tanto evocato, alle raffinate tecniche comunicazionali della politica. Fatto sta che nessuna si è dimostrata finora risolutiva.
Dobbiamo quindi rassegnarci alla fine della democrazia? E se invece prendessimo atto che l’irruzione delle ‘masse’ nella storia politica, verificatasi precipuamente nei due secoli che abbiamo alle spalle, è stata una piccola parentesi nella storia dell’umanità e non è neanche detto che sia il sistema più congruo per il governo delle nazioni? Pensiamoci, da quando è iniziata la storia dell’umanità – che la si voglia datare dalle prime sepolture, settantamila anni fa, o dall’avvento della scrittura e dal codice di Hammurabi, quattromila anni fa – solo per poco più di due secoli e solo nella parte del globo terrestre che chiamiamo Occidente, le masse sono state partecipi della vita politica.
Prima della Rivoluzione Francese del 1789 c’erano state rivolte in cui estemporaneamente la plebe aveva fatto irruzione nella storia, colpi di mano interni alle dinastie regnanti e guerre tra clan e signori feudali, ma solo con la Bastiglia le masse si diedero una struttura organizzativa, una visione del mondo alternativa a quella dominante ed una proiezione nelle istituzioni che furono infine piegate alla democrazia costituzionale. Per il resto, per millenni e senza interruzioni di continuità in buona parte del pianeta, sempre hanno governato e tuttora governano élite che neanche si sono poste il problema del rapporto con le masse. Hanno governato e basta. Che si stia chiudendo la breve parentesi dei due secoli della democrazia occidentale?