scritto da Luigi Gravagnuolo 14 Novembre 2022 per Gente e Territorio
Quella che segue è la prima di quattro puntate di un racconto delle vicende della Guerra di Crimea del 1853-56. Le pubblicheremo una al dì per quattro giorni. L’autore non è uno storico, non attinge le notizie di prima mano; è solo un divulgatore dilettante che si avvale delle risultanze delle ricerche storiografiche. Se troverete qualche inesattezza, perdonate. Il senso generale del racconto, però, sintetizzato nel versetto del Qoelet in epigrafe, non è arbitrario, ma fondato sulla reale vicenda storica di ieri e di oggi.
“Qualche volta si sente dire: <<Ecco, questa è una cosa nuova>>. / Ma proprio questa è già accaduta nei secoli che furono prima di noi”. Qo, 10
“Faremo tutto quanto è necessario, non solo per preservare l’indipendenza di un Paese alleato, ma per umiliare le ambizioni e contrastare le macchinazioni di un despota, le cui intollerabili pretese lo hanno reso nemico di tutte le nazioni civili”. “È giunto il tempo di passare all’azione e vanificare i malvagi disegni della Russia”. “Falsità nella politica e falsità nella religione, ecco cosa rappresenta la Russia”. “Le armate dello Zar vanno avanti con stupri e saccheggi, sono brigantaggio su vasta scala”. “È un dovere agire per mantenere l’indipendenza di un alleato debole contro l’aggressione ingiustificata di un despota ambizioso e perfido, punire un atto di barbara oppressione”.
Sono espressioni estratte dalla stampa e dagli interventi pubblici di politici inglesi.
“Dall’Occidente non possiamo aspettarci altro che odio cieco e malizia, poiché l’Occidente non capisce e non vuole capire, vuole distruggere la nostra grande Patria”. “Il più grande momento della Russia è arrivato. Se la Russia non avanzerà, precipiterà: questa è la legge della storia. Ma la Russia può veramente precipitare? Davvero Dio lo permetterebbe? No, Egli guida la grande anima russa. Con Dio al nostro fianco non possiamo ritirarci”. “Dal Nilo alla Neva, dall’Elba alla Cina, dal Volga all’Eufrate, dal Gange al Danubio (…) questa è la Russia e non scomparirà nei secoli. Lo Spirito Santo lo previde e Daniele lo predisse”.
Queste altre sono tratte da dichiarazioni di esponenti dell’autocrazia e della gerarchia ortodossa russe.
Vi chiederete i nomi di chi le ha enunciate ed il contesto. Su quest’ultimo, suppongo, non abbiate dubbi trattarsi della guerra oggi in atto in Ucraina tra Russia ed Occidente. Quanto agli estensori delle dichiarazioni, le prime sono tratte dal Chronicle, dal Times, dallo Sheffield Indipendent e da interventi pubblici di eminenti leader politici inglesi. Le seconde sono dello zar e del suo entourage. Il contesto non è quello attuale.
Siamo nell’autunno del 1853 ed è appena scoppiata la Guerra di Crimea. Sarà la prima guerra ‘ibrida’, o semplicemente ‘moderna’ della storia, nelle cui dinamiche svolse un ruolo ragguardevole per la prima volta il giornalismo. Specie la stampa inglese e francese orientò le rispettive opinioni pubbliche ed indirizzò le scelte dei governi. Fu allora che Henry Reeve, redattore del Times, coniò la celebre definizione del giornalismo “quarto stato”, non “la voce del potere, ma lo strumento per controllarlo e criticarlo quando occorre”.
Lo zar seppe riconoscere il ruolo del giornalismo in Occidente e foraggiò campagne di stampa pacifiste sia in Francia che in Inghilterra. I pacifisti – tra i quali i britannici Richard Cobden, economista, fondatore della scuola detta manchesteriana, e John Bright, deputato radical-liberale – denunciavano la russofobia della stampa mainstream e sostenevano che, piuttosto che belligere, era opportuno negoziare con lo zar. Per converso la stampa più autorevole li additò all’opinione pubblica come ‘filorussi’ ed ‘inglesi rinnegati’.
Ma veniamo ai fatti.
Sia pure tra vari scossoni, dovuti all’entrata in scena dei movimenti patriottici e democratici, agli inizi degli anni ‘50 in Europa la Pace di Vienna del 1815 ancora reggeva. Quella pace si fondava sul principio del legittimismo, per il quale le cancellerie europee avrebbero considerate legittime solo le corone eredi dirette di quelle precedenti l’era napoleonica e si impegnavano reciprocamente ad intervenire nelle faccende interne dei loro Paesi, qualora un qualche movimento rivoluzionario avesse messo a rischio i sovrani legittimi. Ma già nel ‘30 in Francia la corona legittima dei Borbone era stata soppiantata dagli Orléans di Luigi Filippo e, nel ‘48, sarebbe sopravvenuta la repubblica. Poi Luigi Napoleone Bonaparte, elettone presidente, con un colpo di stato nel ‘51, seguito da un plebiscito nel ‘52, restaurò la monarchia e si fece nominare imperatore. Prese il titolo come Napoleone III, ma la sua non era una monarchia legittima ai sensi del trattato di Vienna.
Fermenti liberal-patriottici si susseguivano nei Balcani, in Ungheria, nella Penisola italiana, in Prussia. Insomma, la pace di Vienna reggeva ma si erano aperte crepe che, anno dopo anno, si allargavano mettendone a rischio l’edificio.
Torniamo al 1815. Nella capitale austro-ungarica, contestualmente ai Trattati di Pace, sottoscritti dai rappresentanti di tutti gli Stati europei, era stata siglata anche la Santa Alleanza, per la quale le potenze cristiane del vecchio continente si impegnavano reciprocamente a promuovere tra i loro sudditi la fede nel diritto divino dei re e ad affermare i valori della cristianità nella vita politica europea. Quella ‘sublime insensatezza’ – così la definì Lord Castlereagh, il ministro degli esteri inglese – era stata voluta fortemente dallo zar Alessandro I, un po’ per sue radicate convinzioni mistiche ed anti-illuministiche, un po’ con l’occhio alla crisi dell’impero ottomano, che già cominciava a sgretolarsi. Dell’Impero Ottomano erano parte i Balcani con le loro popolazioni slavo-cristiane, tenute in condizioni di subalternità da quelle turco-islamiche. Lo zar ci aveva messo l’occhio.
Alla Santa Alleanza, per convinzione o per opportunismo, avevano aderito tutte le potenze europee, salvo due: la Sublime Porta, com’è ovvio, e la Santa Sede, che si era sottratta, indisponibile a riconoscere come membri della famiglia ‘cristiana’ gli ortodossi o i protestanti.
Così, fin dagli anni Venti, tra San Pietroburgo e la Sublime Porta si era aperta una lunga fase di scaramucce, scontri localizzati qua e là e contese alternate ad intese diplomatiche. Oggetto dei contrasti: il controllo degli stretti del Bosforo e dei Dardanelli, accesso dal Mare di Azov e dal Mar Nero al Mar Mediterraneo ed il Caucaso, a sua volta porta d’Oriente. Pretesto: la pretesa dello zar di avere giurisdizione su Gerusalemme ed i luoghi sacri della cristianità che insistevano nei domini ottomani, allo scopo – sosteneva – di potervi garantire il ‘diritto al culto’ dei cristiani.
Inghilterra e Francia, che pur competevano tra loro, erano entrambe interessate a contenere le mire russe sul Mediterraneo, si dichiararono perciò protettrici dell’integrità territoriale dell’Impero Ottomano e delle sue prerogative nel Mar Nero e nel Mare di Azov.
L’Austria stava a guardare, condivideva i principi della Santa Alleanza con più convinzione degli altri e non aveva interesse ad entrare in urto con la Russia. La Prussia non aveva alcuna mira sul Mediterraneo e sui Balcani, ma era in contrasto con la Russia nell’area baltica.
Tra il ‘46 ed il ‘52 nei Balcani si intensificarono le rivolte anti-ottomane delle popolazioni cristiane, appoggiate dalla Russia. I cristiani ribelli dei Balcani le chiedevano con sempre maggiore insistenza di intervenire militarmente per liberarli dal giogo turco e lo zar Nicola I – succeduto ad Alessandro I e sul trono ormai da 28 anni – ruppe gli indugi. Così, nel settembre del ‘53, invase i Principati danubiani della Moldavia e della Valacchia, grosso modo l’attuale Romania.
(1 – continua)