da Pietro Cusati (giurista-giornalista)
La crisi energetica rischia di esercitare effetti regionali asimmetrici, arrecando maggiori danni all’industria del Mezzogiorno, più esposta allo shock per il maggiore fabbisogno energetico. Maggiori danni all’industria del Mezzogiorno, per il maggiore fabbisogno energetico e una maggiore penalizzazione del tessuto economico meridionale. Si evince da una accurata ricerca curata dai valenti economisti della SVIMEZ, Serenella Caravella, Carmelo Petraglia e Stefano Prezioso,pubblicata sul primo numero di Informazioni SVIMEZ, che raccoglie i documenti e le ricerche a cura degli autorevoli economisti della Associazione per lo Sviluppo dell’Industria nel Mezzogiorno che hanno analizzato l’impatto dello shock energetico sulle industrie meridionali. In base alle stime, l’aumento dei prezzi di energia elettrica e gas si tradurrebbe per le imprese industriali, in un aumento in bolletta annuale di 42,9 miliardi di euro. Di questi, il 20 % circa (8,2 miliardi) fa capo ai sistemi produttivi del Mezzogiorno, il cui contributo in termini di valore aggiunto sul totale del comparto industriale nazionale è tuttavia inferiore al 10%. L’impennata inflazionistica implica un’erosione dei margini di redditività particolarmente allarmante e rischi operativi più concreti per le imprese del Sud. L’industria del Sud, secondo gli economisti della SVIMEZ, uscirà dal 2022 con un aumento della bolletta energetica di 8,2 miliardi rispetto al carico pre-pandemia. Un conto che, secondo un’analisi della Svimez, l’associazione per lo sviluppo dell’industria del Mezzogiorno, si tramuterà in un’erosione della redditività più profonda di quella sofferta dalla manifattura nel resto del Paese.Lo studio prova per la prima volta a scomporre su base territoriale gli effetti dello shock energetico, valutato per le imprese industriali in 42,9 miliardi su tutto il territorio nazionale con una quota pari a circa i1 20% ,8,2 miliardi a carico dei sistemi produttivi del Mezzogiorno, il cui contributo in termini di valore aggiunto sul totale del comparto industriale italiano è tuttavia inferiore al 10%. Questo dato è il primo elemento portato dalla Svimez a supporto di una tesi che, come già accaduto nei momenti di picco di altre crisi economiche, vuole affermare una maggiore penalizzazione del tessuto economico meridionale. Un tema che può entrare nelle riflessioni dell’attuale governo sui rischi di un ampliamento dei divari territoriali, materia affidata al ministro del Sud Nello Musumeci e, per quanto riguarda la gestione delle politiche di coesione, al ministro Raffaele Fitto. L’analisi economica firmata dagli economisti Serenella Caravella, Carmelo Petraglia e Stefano Prezioso parte dalla constatazione del maggiore fabbisogno energetico dell’industria del Sud per il peso maggiore di settori energy-intensive, per la più alta incidenza dei costi di trasporto verso i mercati di sbocco e di approvvigionamento delle merci ma soprattutto per la maggiore incidenza di imprese di piccola dimensione (80% contro il 60% del Centro-Nord) caratterizzate da minori livelli di produzione e da una più alta incidenza dei costi energetici. Imprese più piccole possono risultare strutturalmente meno efficienti nella gestione di processi energivori e nella capacità di contrattare costi di approvvigionamento sostenibili, oltre che meno pronte nell’introdurre pratiche di innovazione e risparmio verde.Inoltre Eurostat ha rilevato nel secondo semestre 2021che mediamente le piccole imprese in Italia hanno sostenuto un costo dell’energia elettrica pari a 181 euro al kilowattora contro i 139 delle imprese maggiori. Questa differente struttura rispetto al Centro-Nord si riflette in differenziali di costo e redditività. Il rapporto tra consumi energetici totali (misurati in ktep cioè migliaia di tonnellate equivalenti di petrolio) e valore della produzione in milioni di euro è più squilibrato. A parità di produzione, l’industria meridionale consuma 0,036 ktep per milioni di euro, circa il triplo di energia rispetto al Centro, più del doppio del Nord-Ovest e quasi il doppio del Nord-Est. Il fabbisogno di energia elettrica al Sud e nelle isole è rispettivamente di 68 e 57 gigawatt ora per 1oo milioni di euro di valore aggiunto, tre volte quello dell’industria del Centro e il doppio del Nord. Cambia di poco il quadro con i consumi di gas, che sono allineati al Nord-Est ad esempio ma doppi rispetto al Centro e al Nord-Ovest. La forte incidenza di piccole imprese determina a conti fatti un certo distacco anche del costo medio ponderato dell’energia elettrica, che la Svimez valuta nel 5,5%: 173 euro/ kwh al Sud contro i64 euro al CentroNord. L’aggravio dei costi energetici potrebbe esercitare effetti dirompenti sui bilanci e la redditività d’impresa, rischiando di compromettere ulteriormente la competitività del sistema produttivo meridionale. L’incidenza dei costi diretti, di energia elettrica e gas, sul totale dei costi di produzione è stimata in aumento di quasi 7 volte (da 1,2% a 8%) tra il 2019 e li 2022, a fronte di incrementi più contenuti nel Nord-Est (da o,7 a 4,8%), nel Nord-Ovest (da o,6 a 3,6%) e nel Centro (da 0,4 a 2,6%). Il riflesso diretto è sulla redditività. Incrementando il costo di produzione con il differenziale di spesa energetica,gli economisti della Svimez calcolano una riduzione del Mol per le industrie meridionali del 6,8%, a fronte del 4,1% del Nord-Est, del 3% del Nord-Ovest e del 2,2% del Centro.