Ciò che Dante dice all’età nostra


dal prof. Giovanni Lovito (scrittore)

Ciò che Dante dice all’età nostra
: con questo titolo Francesco Ercole, Ministro della Pubblica Istruzione dal 1932 al 1935, pubblicava un interessante scritto sul pensiero politico del Sommo Poeta, considerando disposizioni e princìpi promulgati, all’indomani della Grande Guerra, dalla Società delle Nazioni (S.d.N.) al fine di garantire la pace tra i popoli del mondo. Ne scaturì un discorso fondamentale sui punti di convergenza (se mai ve ne siano!) fra l’ideale dantesco, volto ad esaltare e celebrare la figura di Arrigo VII, e il disegno politico attuato dal nuovo organismo sovranazionale all’indomani della Grande Guerra. Potrebbe sussistere – si chiedeva lo storico ligure – una sorta di conformità politica fra il progetto wilsoniano e l’idea dantesca di un mondo e un’Europa retti e ‘guidati’ dal monarca universale, discendente di Augusto e rappresentante supremo del popolo romano?  Quale sarebbe stato, inoltre, nel futuro il ruolo dell’Europa nello scenario politico mondiale? Già, proprio l’Europa: la regione geografica che, dalla caduta dell’Impero Romano d’Occidente, continuò a guardare Roma «come suo speglio» per poi assurgere, con Carlomagno, a espressione concreta della coscienza cristiana occidentale contro Arabi e Musulmani. Non solo. Quando i Longobardi, con Desiderio, tentarono di espandere il loro predominio sui territori della Chiesa, Re Carlo, predestinato all’Impero, annientando sotto il sacrosanto segno dell’aquila imperiale l’esercito nemico, soccorse il Papato, come ricorda colui che, nel Poema dantesco [Par., VI], assurge ad espressione suprema della ‘Storia’ e del Diritto:

E quando il dente longobardo morse
                                                         la Santa Chiesa, sotto le sue ali
                                                         Carlo Magno, vincendo, la soccorse. [Par. VI, vv. 94-96].

  Le parole di Giustiniano sono chiare: quando, nell’Alto Medioevo, il potere spirituale iniziò a vacillare, Carlomagno sostenne il Papato, creando i presupposti politici e istituzionali per la nascita della prima «cosciente manifestazione unitaria dell’Occidente cristiano e romano». La Chiesa aveva creato l’Europa; l’Europa, successivamente, anche per i nuovi fermenti religiosi che avrebbero avallato la Riforma luterana, la rinnegava, mentre l’Impero, diventato il «colosso dai piedi di cristallo», vacillava sotto i colpi delle sempre più consolidate Monarchie nazionali, pronte a contendersi il primato politico ed economico nell’intero Occidente. A nulla erano valse, nel tardo Medioevo, le imprecazioni del Sommo Poeta affinché gli Italiani, nell’ottica di un’eventuale ‘unificazione’ sotto l’egida del sovrano di Lussemburgo, accogliessero quest’ultimo non solo come Imperatore, ma soprattutto come Re [Evigilate igitur omnes et adsurgite regi vestro, incolae Italiae, non solum sibi ad Imperium sed, ut liberi, ad regimen reservati / Svegliatevi, dunque, tutti e levatevi incontro al vostro Re, abitanti d’Italia, riservandovi non solo al suo Impero, ma, come popolo libero, al suo reggimento (Ep. V)]; a nulla erano valse, ancora, le esortazioni del Petrarca (dopo la fase ‘repubblicana’ delle Canzoni Ai grandi d’Italia e A un senatore di Roma) nei confronti di Carlo IV [Familiares, X 1; XII 1; XVIII 1] perché, rimettendo ordine in un’Italia lacerata e sconvolta dalle divisioni interne, in nome di Roma realizzasse il ‘sogno imperiale’ del Sommo Poeta:  il lento declino, nello scenario politico mondiale, delle due autorità (i due soli di dantesca memoria) che erano state alla base della vita civile e sociale della Media Aetas segnava il tramonto di un’epoca che con Carlomagno, prima, con il suo successore (Carlo V d’Asburgo) dopo, aveva tentato, sulle orme della ‘Monarchia Romana Universale’, di istituire i presupposti istituzionali e ‘giuridici’ per la nascita dell’Europa moderna [F.A. YATES, Carlo V e l’idea di Impero, in Astrea. L’idea di Impero nel Cinquecento (intr.di A. Biondi), Einaudi, Torino 2004, pp. 3-36]. L’idea di un’Europa, quale entità culturale e morale (non solo geografica), iniziava a consolidarsi solo nel secolo XVIII, allorquando, grazie all’Illuminismo, i princìpi europeistici abbozzati nei secoli precedenti ricevettero una forma alquanto compiuta. Inoltre, se nell’Ottocento l’idea di ‘Nazione’ si consolidò ulteriormente in Italia, nel secolo successivo, all’indomani del primo conflitto mondiale, Thomas Wilson, al fine di garantire una pace duratura fra i popoli, dava vita alla Società delle Nazioni. L’organismo internazionale sembrò subito l’«incarnazione del sogno dantesco» di pace perpetua dei popoli retti dalla giustizia, mentre il Presidente statunitense, nel quadro politico internazionale, diventò il novello «Veltro» dell’Europa e del mondo; illusione che, come sappiamo, durò poco, nonostante gli uomini, a partire dal secondo dopoguerra, abbiano continuato ad aver fede nell’ente soprastatale nato sulle ceneri della ‘Società’ summenzionata: l’ONU.
In effetti, come giustamente sottolineato dall’Ercole, tra la visione dantesca e il progetto wilsoniano intercorse una grande differenza e la S.d.N. fu cosa diversa rispetto all’organizzazione politica e giuridica immaginata dal nostro Poeta nazionale. Un punto, tuttavia, va tenuto ben saldo: alla base di entrambi i ‘progetti’ s’adombrava il concetto di «giustizia» ovvero di quella virtus che ogni Stato e ogni suo ‘primo’ rappresentante, indipendentemente dalla propria potenza militare o economica, avrebbe dovuto e dovrebbe attuare non solo nei confronti dei suoi concittadini, ma soprattutto nei confronti degli Stati limitrofi e degli alleati. In altri termini, giustizia vera non può sussistere in quegli Stati retti da ‘tiranni’ fautori di ingiustizie, sopraffazione e, soprattutto, violenza fisica e morale. La S.d.N. presuppose che nei governi di ogni singolo Stato regnasse la giustizia e che tutti, consequenzialmente, fossero retti da un potere democratico. Ma capi di Stato e popoli soggetti – si chiedeva ancora l’Ercole – sono costantemente preparati e disposti a reggersi democraticamente? Le idee illuministiche, fatte proprie dai rivoluzionari francesi nel secolo XVIII, nonché i princìpi che furono alla base della Dichiarazione d’indipendenza degli Stati Uniti d’America nel 1776 («fra questi diritti vi sono la vita, la libertà e il perseguimento del benessere civile») prevalsero sempre nei governi dei vari Stati nazionali come sperato dal Wilson all’indomani del tragico conflitto mondiale?
Dante non ha mai creduto possibile che i popoli, incapaci di reggersi con giustizia all’interno delle proprie Nazioni, potessero miracolosamente organizzarsi e mettersi d’accordo per attuarla nei rapporti sopranazionali, sicché comprese immediatamente che troppi odi e interessi (soprattutto economici) dividono i cittadini delle diverse ‘Nazioni’ perché individui nemici nella propria terra potessero, pacificamente e da un momento all’altro, darsi la mano e considerare come fratelli gli stranieri. Da qui la conclusione per cui la pace non sarebbe scaturita dall’accordo fra i popoli nel proposito di porre fine alle violenze civili e militari, ma (mi si perdoni la conclusione oggi anacronistica!) dalla volontà di un uomo solo, rappresentante divino sulla terra, che (imperatore o monarca universale) giammai avrebbe osato sottomettere con arroganza e violenza gli Stati sorti per essere liberi e reggersi, in nome della vera  ‘democrazia’, autonomamente (F. BATTAGLIA, Impero, Chiesa e Stati particolari nel pensiero di Dante, Zanichelli, Bologna 1944). Gli uomini, secondo il Poeta, solo allora avrebbero potuto fondare l’Umana civilitas, rendendo possibile la vera giustizia nei rapporti internazionali, allorquando fossero riusciti a dominare, secondo ragione e «giustizia», le proprie passioni e la propria smania di predominio sui popoli inferiori. Corollari fondamentali e indispensabili di ogni Nazione democratica, quindi, sarebbero stati la moralità e la rettitudine dei governanti, la giustizia assoluta nei rapporti interni e, soprattutto, il rispetto dei diritti dei popoli più deboli». Allorché tutto ciò si rivelò un disegno alquanto utopico e irrealizzabile, l’Alighieri ricorse alla figura del Veltro, scorgendo nel «levriero» (Imperatore/Re d’Italia) colui che «tutto possedendo e più desiderare non possendo, li Re tenga contento nelli termini delli regni, sicché pace intra loro sia» [Conv. IV, (4)].
Da qui l’ulteriore deduzione per cui gli uomini potranno essere felici e vivere nella pace e nella giustizia non quando ciascun individuo, con aggressività e violenza, imporrà agli altri il riconoscimento dei propri diritti, ma quando ciascun individuo e ciascun popolo «sapranno imporre innanzitutto a se stessi l’attuazione dei propri doveri nei confronti delle popolazioni inermi».
Fu questo, probabilmente, il primo e fondamentale intento del ventottesimo Presidente degli USA e, successivamente, dell’ONU, all’indomani di tragici conflitti, prodotti, ieri come oggi, di un sistema politico-sociale fondato sull’esaltazione di pochi Stati sovrani e sulla potenza di alcune entità nazionali pronte a sottomettere, con soprusi e ‘barbariche’ violenze, le popolazioni più povere del mondo.

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