by Luigi Gravagnuolo 23 Ottobre 2024
A mia memoria il primo corpo fu quello di Ettore. Dopo averlo trafitto a morte, Achille lo spogliò e disse agli Achei: “…su presto, giriamo armati intorno alla rocca / per sapere i disegni dei Teucri, se pure ne hanno, / se lasceranno l’alta città, caduto costui, / o vogliono resistere, pur non avendo più Ettore…” Poi “gli forò i tendini dietro ai due piedi / dalla caviglia al calcagno, vi passò due corregge di cuoio /, lo legò al cocchio, lasciando strasciconi la testa / …e frustò i cavalli per andare...” I Troiani, alla vista del più grande dei loro guerrieri, che “molti mali” aveva arrecato ai nemici, trascinato sotto le mura e poi ingannati dal cavallo di Ulisse, videro la loro superba rocca devastata. I pochi di loro che sopravvissero al ‘genocidio’ vagarono profughi per il Mediterraneo.
Il secondo – non la si prenda per blasfemia – fu il corpo di Cristo. Straziato, inchiodato e appeso alla croce e così esibito al popolo. Lui, che non aveva arrecato alcun male a chicchessia, il figlio di Dio, umiliato come il peggiore dei malfattori. Ma il corpo di Cristo risorse. E vinse. I cristiani, sotto il segno della croce, proprio sotto il simbolo della sconfitta, pur perseguitati e martoriati, estesero decennio dopo decennio il loro raggio di azione, fino a conquistare tre secoli dopo il controllo dell’Impero Romano.
Allora non c’erano le macchine fotografiche e le videoriprese, niente tivvù e reportage in diretta, solo i racconti orali e scritti. E le arti figurative.
Oggi lo scempio dell’esibizione dei corpi dei vinti assume connotazioni più strazianti, perché quelli che vediamo sono corpi reali, fino a pochi istanti prima viventi, che sentivamo parlare e concionare in tivvù e sui social. Un macabro rituale che si ripete nella gran parte dei conflitti contemporanei.
Passiamoli allora in rassegna, i corpi sfregiati e poi mostrati al mondo dal secolo scorso ad oggi. Cioè da quando i fotoreporter fissano la storia e le storie in immagini. Quelli che ricordiamo, ovviamente.
Non ci sfuggono le centinaia di teste mozzate e infisse sui cancelli di Raqqa dall’ISIS di Al Baghdadi o i corpi straziati recentemente in Ucraina e a Gaza, ivi compresi quelli degli Israeliani massacrati il 7 ottobre dello scorso anno. Ma questi volti, questi corpi sono di persone senza notorietà. Di essi si conta il numero, non le individualità, i caratteri personali, le attitudini, le idee. Come accade con i corpi delle vittime delle stragi o di calamità naturali. Non hanno la forza comunicativa dei ‘capi’ uccisi e mostrati al popolo.
Forza comunicativa nel ‘900 hanno avuto i corpi di Mussolini e della Petacci, appesi a testa in giù a Piazzale Loreto (1945). Poi quello di Ernesto Che Guevara in Bolivia (1967), disposto su una tavola di legno alla stregua del Cristo di Mantegna. Le Brigate Rosse curarono nei dettagli il macabro rituale quando giustiziarono Aldo Moro (1978) e lo fecero trovare alle tivvù in via Caetani, riverso in posizione fetale nel bagagliaio della Renault rossa. E quello di Ceausescu e di sua moglie Elena (1989), legati a due sedie e fucilati a favor delle telecamere del mondo intero. E ancora Saddam Hussein (2006), videoripreso quando, la testa già nella corda, il boia aprì la botola sulla quale poggiava i piedi. E Gheddafi, prima trucidato, messo nel freezer di un supermercato per quattro giorni, infine, quando l’attenzione del mondo era all’acme, adagiato sul pavimento e messo in mostra mentre i suoi ex sudditi sfilavano per godersi lo spettacolo.
I corpi di Mussolini e Claretta e quelli di Ceausescu ed Elena dissero al mondo che il fascismo e il comunismo stalinista erano stati sconfitti. E di fatto lo furono, irreversibilmente.
Quello di Che Guevara infiammò gli animi dei giovani occidentali e dei popoli del sud del mondo, fungendo da spinta propulsiva del ‘68 e delle lotte di liberazione nazionali nel terzo mondo.
Il corpo di Moro segnò, all’opposto delle intenzioni e delle convinzioni dei suoi sicari, la fine del ‘68 e la vittoria della democrazia ‘borghese’ in Italia.
Le esecuzioni teatrali di Saddam e di Gheddafi segnarono la fine del nazionalismo arabo, al quale sarebbe succeduto il fondamentalismo islamico.
La storia dei corpi dei vinti non finisce con la loro morte.
Ora è la volta di Yahya Sinwar. In verità stavolta l’esibizione della sua salma è stata pudica, la si è appena intravista sotto le macerie dell’edificio colpito dalle bombe dell’Idf. Ha invece bucato il video il lancio del suo bastone contro il drone che lo riprendeva seduto in poltrona. Lì, dove aspettava la morte.
Un gesto alla Enrico Toti, il soldato italiano caduto durante la battaglia dell’Isonzo (1916). Ferito da più colpi di arma da fuoco, prima di morire, Toti arringò i suoi commilitoni affinché passassero all’assalto del nemico. Nemico contro il quale lanciò la sua famosa stampella.
L’Italia uscì vincitrice dalla Grande Guerra, sia pure con una vittoria ‘mutilata’ ed Enrico Toti è oggi un nostro eroe nazionale. L’avessero vinta gli Austriaci sarebbe stato dimenticato nella migliore delle ipotesi, o raccontato come un fuoriuscito di senno.
Toccherà a Sinwar la stessa sorte. Martire ed eroe della Palestina libera se Israele sarà sconfitto, terrorista feroce e privo di un solo briciolo di umanità se Hamas sarà definitivamente debellato. Intanto il suo bastone sta già alimentando nel popolo palestinese, e in quello arabo più in generale, l’ardente fiamma dell’esempio dei martiri.
Ed ora Hezbollah cerca il ‘suo’ scalpo da esibire, il corpo di Netanhyau. È la legge del taglione.