AGNELLI / COLTELLI: la caduta di una dinastia intoccabile e … il giorno della civetta

 

Aldo Bianchini

SALERNO – Che la caduta dovesse arrivare dopo oltre anni di dominio assoluto dell’alta finanza era nell’aria fin da quel triste 24 gennaio 2003, data della morte del suo leader maximo Gianni Agnelli (detto l’avvocato); ma che si dovesse arrivare alla rovinosa caduta dopo appena 21 anni dalla morte dell’avvocato era onestamente impensabile.

Ci ha messo la mano, anzi le mani, la nobildonna Margherita Agnelli (secondogenita dell’avvocato e di Marella Caracciolo) che, all’apice una vita molto brillante da figlia dei fiori, pittrice e collezionista d’arte, sta vivendo il ruolo di mamma di otto figli (tre dei quali avuti dallo scrittore e giornalista Alain Elkann e cinque dal conte francese Serge Palhen) nella maniera peggiore possibile, e forse non soltanto per colpa sua. Difatti la “casta Agnelli” da tempo aveva assegnato un ruolo di serie “A” ai rampolli John, Lapo e Ginevra (figli di Elkann) e quello di serie “B” ai cinque figli di Palhen.

La lunghissima saga degli Agnelli l’ha raccontato splendidamente dallo storico Gigi Moncalvo nel libro “Agnelli/Coltelli) divenuto un best seller anche sugli schermi televisivi di mezzo mondo; e quanto scritto da Moncalvo ha trovato largo spazio e sicura conferma nell’azione giudiziaria che ha portato la Procura torinese a bloccare ben 74,8 milioni di euro (oltre ai 50milioni di gioielli fuori eredità) che non sono più, per il momento, nella disponibilità dei tre fratelli dorati (John, Lapo e Ginevra) a causa della lotta con la loro mamma per la gestione dell’immensa eredità lasciata dall’avvocato con vari testamenti che spesso confliggono tra loro. E questo probabilmente è solo il primo pezzo di una guerra nella quale, ovviamente, non è facile e consigliabile esprimere pensieri e considerazioni.

Quanto è lontano, addirittura anni luce, quell’immenso potere politico/finanziario/giudiziario costruito tenacemente dall’avvocato che appena dieci anni prima di morire aveva messo a segno il suo capolavoro facendo passare quel 17 aprile 1993 nello storico “giorno della civetta”, e non solo per ricordare Leonardo Sciascia. Era il momento più duro di tangentopoli, quell’aprile del 1993, e il pool mani pulite di Milano aveva messo nel mirino la grande FIAT e l’inattaccabile potere dell’avvocato ben spalleggiato dall’a.d. Cesare Romiti (24.06.1923 – 18.08.2020) contro il quale il pool aveva richiesto ed ottenuto un mandato di cattura.

Cosa accadde quel giorno lo ha raccontato il magistrato Tiziana Maiolo (già componente del pool mani pulite di Milano):

Il racconto scritto  dall’ex magistrato del pool Tiziana Maiolo due giorni dopo la morte di Romiti: “”” … Il 17 aprile 1993 segnò l’ultima grande vittoria e la prima clamorosa sconfitta del pool, che aveva imposto il proprio potere, costringendo il più grande gruppo industriale italiano a trattare e poi a inchinarsi. Anche la Fiat portò a casa un gruzzoletto, perché ogni indagine sull’azienda quel giorno magicamente cessò. Le due autovetture della Guardia di Finanza attesero nel piazzale Mirafiori l’arrivo di Cesare Romiti scortato da due agenti; il manager sale sulla seconda autovettura ed il convoglio parte verso Milano, destinazione Procura della Repubblica. Le auto imboccano il casello torinese dell’A/4, l’ordine è tassativo e senza esitazione: Romiti deve arrivare subito al cospetto di Di Pietro, D’Avigo, Colombo e Borrelli per il primo interrogatorio dopo la notifica del mandato di cattura. Proseguono veloci le due autovetture ma dopo 62,5 chilometri si incanalano improvvisamente nell’uscita di Vercelli e cambiano senso di marcia ritornando verso Torino dove Cesare Romiti viene lasciato libero proprio nel posto dove era stato prelevato poco più di quaranta minuti prima. Pochi giorni dopo, lunedì 19 aprile, un aereo planò quasi su via Fatebenefratelli a Milano e sulla testa del questore Achille Serra. Portava Cesare Romiti all’interrogatorio. Non arrestato, non indagato, un semplice testimone, “persona informata dei fatti”. I magistrati arrivarono con lampeggianti e sirene non inferiori a quelle che normalmente accompagnano, immaginiamo, il Presidente degli Stati Uniti. Portiere sbattute, passi veloci, l’accoglienza del questore. Non si parla di reati, troppo volgare nei salotti buoni. Si parla di politica. L’amministratore delegato della Fiat tocca le corde giuste, ha studiato. Attacca frontalmente il nemico numero uno del pool, Bettino Craxi (detto il cinghialone). Ne ha anche per Andreotti e Cirino Pomicino. Il mio mito è Berlinguer, sussurra virtuosamente, e cita la “questione morale”. Che importa di Maurizio Prada o di quell’altro che ha detto come proprio il giorno precedente l’incontro in questura Romiti abbia bruciato un bel po’ di carte? Ormai il ghiaccio è rotto e tutti si vogliono bene, tanto che nel secondo interrogatorio Cesare Romiti stringe tra le mani la copia del Corriere della sera dove lui stesso ha vergato parole dolci come il miele: “Aiutiamoli, questi giudici, stanno cambiando l’Italia” … “””.

 

Capisco che i soldi fanno gola a tutti, ma sfasciare un impero come quello della “famiglia Agnelli” per quattro spiccioli mi sembra davvero una cosa tragicomica.

 

 

 

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