di Giovanni Lovito
Il testo della Divina Commedia si cita secondo l’edizione del Vandelli (D. Alighieri, La Divina Commedia, a c. di G. Vandelli, Hoepli, Milano 1952).
[…] Dante fu guelfo o ghibellino? È la questione che spesso viene proposta nelle aule scolastiche della Nazione, al fine di comprendere la fazione politica di cui fu membro attivo il Sommo Poeta.
Stando agli studi di autorevoli dantisti italiani, si può senz’altro confermare che l’Alighieri fu guelfo di nascita (Firenze), ghibellino per la ‘Nazione’ (Italia), imperialista nel mondo. Il partito guelfo era stato in origine il partito democratico e nazionale: combatté l’aristocrazia e il dominio straniero e fu sostenitore delle libertà comunali in Italia. Il papa, in guerra con l’imperatore, divenne protettore dei guelfi, sostenendo l’indipendenza dei Comuni che, sorti all’interno di una società teocratica, obbedivano alla sua volontà. Tuttavia, quando la sovranità imperiale venne fiaccata e il feudalesimo iniziò a perdere colpi nella Penisola, il quadro socio politico mutò gradualmente. I Comuni, intolleranti d’ogni supremazia, si opposero ai legati papali, mentre prendeva il sopravvento una nuova fazione che, ricongiungendosi alle vecchie formazioni politiche ghibelline, mosse guerra ai pontefici. Si trattò di un ‘nuovo’ ghibellinismo che, nel secolo XIV, sulla scia della tradizione classica si contrappose all’imperialismo dei secoli precedenti. Dante ne fu l’anima e la mente, prodigandosi assiduamente per far nascere tra gli ‘esuli’, nel nome di Roma antica, l’idea d’una «patria» e di una «Nazione» comune.
L’humus ideologico di tale pensiero politico è ravvisabile nel De Monarchia, un’opera organica e talmente collegata e connessa alla Commedia da «formarne la necessaria introduzione». Il Poema, in altri termini, è ben compendiato nei tre libri politici redatti dall’Alighieri al fine di convalidare un fatto storico indiscutibile: l’Impero può diventare strumento di civiltà poiché reincarnazione di quella Monarchia Universale che nel popolo romano individuò la gens suprema eletta da Dio per incivilire il mondo. Una divina predestinazione, dunque, condusse i Romani alla meta assegnata loro da Dio: all’Impero universale (Mon. II, 9, 1 sgg; 14 sgg.). Concetti preliminari, questi, preannunciati nel quarto del Convivio (Conv. IV, 4, 5) ed espressi nei primi due libri del trattato politico che fecero del Poeta fiorentino un vero precursore della scienza politica moderna nonché latore del germe fecondo di un nuovo principio: il sentimento di una Patria comune direttamente congiunto all’historia di Roma e del suo Impero. Se da un lato, quindi, la sovranità imperiale teutonica aveva ereditato le tradizioni di quella romana, l’imperatore tedesco avrebbe dovuto vieppiù rinnovarle secondo la volontà divina, stabilendo la propria sede in l’Italia tra il popolo predestinato a reggere le sorti del mondo. Regno della pace e della giustizia (come giustamente confermato da Felice Battaglia nel suo studio Impero, Chiesa e Stati particolari nel pensiero di Dante), il nuovo Imperium ‘umanistico’ avrebbe garantito a Stati e Comuni dipendenti ogni forma di autonomia giuridico-legislativa, mentre il monarca universale «non avrebbe esteso i confini della sua ambizione oltre quello che già possedeva né avrebbe desiderato altro che il bene dei suoi sudditi». La società civile, in altri termini, sulla base del Diritto avrebbe ritrovato la sua indipendenza e se il Jus fu sacro e inviolabile, distinto dalla morale e dalla religione, l’Impero, consequenzialmente, sarebbe stato completamente indipendente rispetto alla Chiesa. Sulla definizione dantesca del Diritto e sul netto ‘distacco’ tra Jus e morale sono già intervenuti insigni critici della Letteratura nazionale, tra i quali mi preme ricordare Francesco Ercole, Gino Arias, Lomonaco e il Carmignani.
La disamina attenta del canto di Marco Lombardo, uomo di corte del secolo XIII (cfr. Purg. XVI, vv. 106 sgg.), comprova quanto finora asserito, illustrando ulteriormente il concetto di indipendenza della sovranità imperiale rispetto alla Chiesa:
Soleva Roma che ’l buon mondo feo,
due soli aver, che l’una e l’altra strada
facean vedere, e del mondo e di Deo.
L’un l’altro ha spento; ed è giunta la spada
col pasturale, e l’un con l’altro inseme
per viva forza mal convien che vada;
però che, giunti, l’un l’altro non teme: […].
[Purg. XVI, vv. 106-112].
Nei versi è rintracciabile la teoria dei «due soli», riproposta altresì nel terzo libro della Monarchia: Impero e Papato costituiscono le guide utili all’uomo per il conseguimento della beatitudine terrena (imperatore) e celeste (papa). Si tratta dei due soprannaturali remedia contra infirmitatem peccati, per cui, accanto alla guida spirituale, in terra si sarebbe consolidata quella temporale. Il nuovo ‘salvatore’ (Cinquecento dieci e cinque /Veltro) sarebbe stato non solo un «messo divino» (Purg. XXXIII, 44) ma un erede di quell’aquila che «lasciò le penne al carro / Per che divenne mostro e poscia preda» (ibid., 37 sgg.). Superato, quindi, il vecchio sistema dottrinale della Luna (Impero) che, non brillando di luce propria, avrebbe ricevuto la sua incandescenza dal Sole (Papato), il Sommo Poeta conferma che la Monarchia temporale deriva immediatamente da Dio e non dal suo «vicario in terra». La restaurazione imperiale, dunque, si sarebbe realizzata in concomitanza con la riforma della Chiesa che, in quanto ‘guida’ spirituale, avrebbe dovuto rinunciare ad ogni ingerenza nelle cose temporali; l’imperatore, dal canto suo, avrebbe messo a servizio del mondo ecclesiastico la sua spada al fine di impedire il diffondersi delle teorie eretiche e per assoggettare alla ‘Cristianità’ i popoli della terra. Furono necessarie le leggi, ma la Chiesa, invadendo la sfera politica temporale ed esautorandone ogni potere, le aveva rese inutili, creando disordine e corruzione all’interno della società civile:
Le leggi son, ma chi pon mano ad esse?
Nullo, però che ’l Pastor che procede
rugumar può ma non ha l’unghie fesse; […].
[Purg. XVI, vv. 97-99].
Ecco, dunque, il nerbo del pensiero politico dell’Alighieri contenuto nel terzo libro del De Monarchia: la separazione del potere temporale da quello spirituale e il richiamo della Chiesa alla sua primitiva missione di carità. Nell’incipit dell’Unam sanctam, Bonifacio VIII aveva rivendicato al Papato ambedue i poteri, con la sola differenza che il primo sarebbe stato esercitato direttamente dal papa, il secondo indirettamente. Durante l’interregno, inoltre, sorse un’ulteriore questione in merito a chi avrebbe dovuto esercitare l’autorità imperiale durante la vacanza dell’Impero. I pontefici riservarono a loro stessi tale diritto e quando papa Bonifacio tentò di farsi designare nuovo rappresentante imperiale, il regno di Francia, al fine di contenere le mire espansionistiche dell’Impero, cercò di strapparla di mano al vicario di Cristo, diffondendo e diramando tra i popoli il motto rex in regno suo est imperator. Il discendente dei Caetani ammonì il re francese con le seguenti parole: «Nec insurgat hic potentiae gallicanae, quae dicit, quod non recognoscat superiorem. Mentiuntur, quia de iure sunt et esse debent sub Rege Romanorum et Imperatore» [Né, ciò, prevalga della sovranità francese che afferma di non riconoscere alcuna autorità superiore. Essi (i Francesi) affermano il falso, poiché secondo il Diritto sono e devono rimanere sotto l’egida del Re e Imperatore dei Romani].
Abbiamo toccato svariati punti del pensiero politico dell’Alighieri, abbiamo trattato, seppur velocemente, di alcune delle sue opinioni politico-ecclesiastiche; s’è tenuto fisso lo sguardo, tuttavia, sulla posizione da lui assunta di fronte al guelfismo francese e pontificio, contro cui pose il concetto della Monarchia universale considerata la continuazione e il perfezionamento dell’antico Impero Romano (cfr. Purg. XX., vv. 43 sgg.). Dante – come riferisce lo storico Carlo Cipolla – si impadronì di quel concetto, lo vivificò col suo ingegno e «lo elevò fino a diventare l’espressione della fratellanza delle nazioni». Non solo. Il critico ottocentesco continua la sua importante dissertazione confermando come il Fiorentino si fosse occupato della questione pontificia nel terzo libro del trattato, indirizzato, per la maggior parte, contro il guelfismo francese. Presso la corte di Filippo il Bello, mediante la divulgazione di vari scritti storico-politici, s’era osteggiato l’Impero. Se a tutto ciò aggiungiamo il tentativo fatto dal re francese di asservire la Chiesa al regno d’oltralpe (tentativo che potremmo far risalire all’evento di Anagni e che sarebbe sfociato nella cattività avignonese) l’arcano è svelato: il Poeta fiorentino scrisse il trattato politico collegandolo strettamente al Poema e riaffermando, per Roma, il diritto di essere nuovamente la sede dei Cesari e per l’Italia «la gloria di assurgere a giardino dell’Impero». Il tutto venne reso con un impeto nazionalistico mai avvertito nelle opere precedenti. Sicché, nonostante l’azione di vari Ordini monastici volta a confutare definitivamente le idee dantesche e la solerzia profusa (al tempo della discesa in Italia di Ludovico il Bavaro) dal Cardinale dal Poggetto affinché il trattato fosse dato alle fiamme (1329); malgrado, ancora, nel secolo XVI l’importante scritto fosse stato messo all’Index librorum prohibitorum (Indice dei libri proibiti) l’impeto nazionalistico dell’opera politica e l’eco della sua ‘visione’ patriottica avrebbero superato l’oblio dei secoli e della Storia, nell’ottica di una rivalutazione completa di quelle feconde concezioni storico-ideologiche (‘Libera Chiesa in libero Stato’) che avrebbero regolato i rapporti tra Stato e Chiesa dal periodo postunitario ai Patti Lateranensi del 1929.
Questa, tuttavia, è un’altra ‘importante’ storia.