STORIE DI ABUSO D’UFFICIO

 

 

di Giovanni Falci (avvocato cassazionista)

 

Innanzitutto vorrei prendere le mosse in questo mio commento positivo dell’abrogazione del reato di abuso d’ufficio dal commento negativo pubblicato da Michelangelo Russo sulle pagine di questo quotidiano.

Non poteva essere diversamente: la visione del PM è opposta a quella della difesa anche se non dovrebbe essere proprio così.

In realtà PM e Difesa devono avere in comune l’obiettivo e il fine della celebrazione di un “giusto processo” a carico degli imputati, giusto processo il cui raggiungimento non è possibile mettere in relazione con “spese” economiche e con “posizioni” di potere.

L’abuso d’ufficio non è “spaventapasseri nel grano di giugno”.

Fatevelo dire non da Michelangelo Russo ma da chi è andato in carcere per questo reato e poi è stato assolto o da chi è stato sospeso dell’incarico dopo una sentenza di primo grado, ovviamente riformata con assoluzione in appello.

Per il primo gruppo fatevelo dire dagli imputati del processo cd Trincerone e per il secondo gruppo da Vincenzo De Luca e Francesco Benincasa, il primo governatore della Campania e il secondo ex sindaco di Vietri sul Mare.

Michelangelo lo sa bene e lo dice che le condanne erano difficili, dimentica di dirci, però, che le contestazioni erano facilissime.

Ma la cosa che meno mi convince del commento dell’ex PM Russo, è quel passaggio critico sulla emissione di misure cautelari da parte di un organo collegiale invece che dal monocratico Giudice per le Indagini Preliminari.

Una norma emanata per garantire maggiormente il bene giuridico della libertà personale del cittadino, viene criticata in ragione di possibili criticità per le situazioni di incompatibilità dei giudici che si verranno a creare.

Come dire, non è importante garantire maggiormente l’indagato se questo comporterà “un problema insormontabile trovare i Giudici totalmente terzi all’arresto che poi dovranno decidere la sentenza finale”.

In realtà di “insormontabile” c’è solo l’organico dei giudici che va rivisto con incremento delle unità che comporta un aumento di spesa dello Stato.

Direi mutuando una efficace espressione di Leonardo Sciascia in tema di antimafia, “il giusto processo è un giudice in più, anche a costo di un convegno sulla giustizia in meno”.

Fatta questa premessa voglio raccontarvi una storia di abuso d’ufficio che ha riguardato un mio amico, sindaco di Torraca negli anni 80/90, il Cavaliere Nicola Perazzo, letteralmente travolto da questa norma ormai abrogata.

Il buon Nicola venne denunciato da una opposizione che, non sapendo vincere le elezioni e non sapendo guadagnarsi il consenso popolare nelle elezioni, tentò di insediarsi nel Comune attraverso un’azione giudiziaria.

L’accusa era quella di avere annullato alcune multe a presunti suoi sostenitori politici e, quindi, con violazione di legge, di avere intenzionalmente arrecato un vantaggio patrimoniale ai multati.

Il processo al cav. Perazzo andò male in primo grado perché il Tribunale di Sala Consilina, a quell’epoca ancora in funzione, condannò Perazzo e i “multati”.

Meno male che per lo meno, allora, non c’era la Legge Severino e quindi non scattò immediatamente dopo la sentenza di I grado, l’interdizione dai pubblici uffici, pena accessoria del reato previsto dall’art. 323 c.p.

Nicola propose appello e tutto rimase sospeso fino al giorno in cui si celebrò, innanzi la Corte di Appello di Salerno il secondo grado di quel processo.

L’appello del sindaco Perazzo fu dichiarato “inammissibile” perché proposto fuori termine; gli altri imputati, invece, vennero assolti “perché il fatto non sussiste”.

C’è chi, con fantasia e un certo retro pensiero maligno, addirittura parla di preordinato deposito fuori termine dell’appello; io non ci credo.

Sta di fatto che si verificò una “beffa processuale” figlia di un formalismo che finalmente va attenuandosi grazie ai buoni servigi della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che sta spostando sempre più l’attenzione alla sostanza più che alla forma degli atti.

Nicola, comunque si ricandidò alle successive elezioni, “sconfisse” ancora una volta l’avversario che, nato perdente, è rimasto tale per sempre e, poi subii l’onta di essere attaccato in aula consiliare al momento della proclamazione.

Era successo che l’avversario di Perazzo insieme ad altro “illustre” personaggio torrachese, laureato anch’egli, appartenente a quell’intelligentia paesana che guarda il popolo dall’alto in basso, si erano recati di buon’ora a Salerno per tentare di avere copia della sentenza che avrebbe consentito di “sconfiggere” il sindaco rieletto.

Mia moglie mi ha raccontato quella scena del duo che in mia assenza, su mia indicazione, si era rivolto a lei per essere “guidati” nelle stanze della Corte: “sembravano topi che camminano sotto i muri guardandosi intorno”, fu il suo commento; “che brutta scena vederli sorridenti con quella sentenza in mano che avrebbe causato dolore al sindaco”; la gioia del male che si va a infliggere.

Non c’è niente di divertente nel constatare la condanna di un proprio simile che possa giustificare la gioia e la risata.

La storia è continuata con il commissariamento del Comune, la nuova elezione l’anno successivo e la nuova “sconfitta” del candidato sindaco “spione” che si arrese a un giovane rampante candidato di appena 28 anni a quell’epoca.

Nicola Perazzo ancora oggi, a distanza di 25 anni da questi fatti, soffre per quell’affronto e per quella ingiustizia che ha subito.

Sarò veramente felice di patrocinare gratuitamente, se me lo consentirà, la procedura di revoca di quella sentenza ingiusta che, grazie all’abrogazione di quel reato, è possibile ottenere.

Voglio consegnare nelle sue mani l’epilogo positivo di una vicenda triste sul piano giuridico e umano, triste anche per coloro che hanno sorriso e gioito con la sentenza di condanna in mano.

Giovanni Falci

 

 

 

 

 

 

 

 

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